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IL MEZZOGIORNO E LA POLITICA ITALIANA
Il Mezzogiorno salvi il Mezzogiorno
Nel programma del Partito popolare
italiano, fu messa sul piano politico, come affermazione
fondamentale (per la prima volta in Italia) «la
risoluzione nazionale del problema del Mezzogiorno».
Così è detto al capo V; e nel primo congresso nazionale
tenuto a Bologna nel giugno del 1919 fu riaffermato che
il problema del Mezzogiorno è di carattere «nazionale».
Questa impostazione data da noi a nome di un partito – e
non più come opinione personale, alla ripresa
dell’attività politica del dopoguerra –, passò ad altri
partiti, che in varie forme fecero anch’essi simili
affermazioni, benché non le avessero inserite nel loro
programma; da ultimo anche il fascismo, che sembrava
escludere affermazioni credute particolariste come
questa, ha sentito che al problema del Mezzogiorno deve
darsi portata nazionale.
Però mentre tale impostazione risponde ad
una realtà profonda – che da noi meridionali è certo più
sentita e meglio intuita – non ha avuto fin oggi che una
semplice espressione esteriore e teorica, e ciò per la
mancanza di una impostazione politica di tale problema,
sì da poter creare un orientamento sintetico e
convergente di tutti quegli aspetti, tecnici,
finanziari, economici e morali, che con una frase
significativa e sintetica vengono detti «questione
meridionale».
Premetto che per Mezzogiorno intendiamo
non solo quello continentale dall’Abruzzo alla Calabria,
ma anche le isole di Sicilia e Sardegna. È naturale che
così vasta regione, anzi agglomerato di regioni, abbia
molti problemi da agitare e da risolvere. Ma la
convergenza di tante condizioni quasi omogenee, la
connessione di interessi e di economie, la simultaneità
e univocità di cause e similarità di effetti – pur nel
vario e diverso sviluppo politico che li assomma e li
proietta nella visuale nazionale –, fanno dei tanti
problemi un problema solo, formidabile, e premente sulla
coscienza pubblica.
Quando noi diciamo che la questione del
Mezzogiorno è un problema «nazionale», intendiamo ciò
sotto un duplice aspetto: in quanto gli effetti dei
problemi che la compongono si ripercuotono in tutta la
nazione, e in quanto è dovere nazionale risolverlo nella
sua intera portata. Ora non sarà ciò possibile, se noi
che siamo figli del Mezzogiorno e che nella politica
nazionale diamo molto della nostra attività e dei nostri
sentimenti, non ci formiamo una coscienza pubblica della
«questione» nella sua portata sintetica e nella sua
ragione politica, perché possa irradiarsi e diventare
forza motrice di altre energie, locali e statali,
economiche e morali di tutta la nazione.
Il Partito
popolare italiano si è prefisso questo compito fin dal
suo inizio, e ne volle prendere impegno segnandolo nelle
sue tavole programmatiche; e la sua azione e quella dei
proprio uomini al governo non è stata priva di utili
effetti, e le varie affermazioni alla camera non furono
sterili e vane. Ed oggi, prendendo occasione dal quarto
anniversario della costituzione del partito, in questa
metropoli del Mezzogiorno – che ne ha tutti i fascini e
che ne incentra tante energie – intendo riaffermare il
programma del risorgimento meridionale, quale è nella sua natura complessa e nella sua ragione
nazionale, parlando sul tema «Il Mezzogiorno e la
politica italiana». Alla presenza di tante
rappresentanze, venute dalle regioni più lontane, e di
questa calda folla di vario sentire politico ma di un
sol palpito per le nostre terre, a nome del Partito
popolare italiano, intendo ripetere, in questo giorno,
per noi fausto e pieno di speranze, quanto nell’aprile
del 1920 il nostro secondo congresso qui a Napoli volle
dimostrare di solidarietà e di comprensione dei nostri
mali, ma con un piano reso dall’esperienza più maturo e
più sicuro nelle linee ricostruttive, e con una volontà
ferma e decisa di lavorare e cooperare alla soluzione
per l’interesse e il bene della patria nostra. Questa
patria, che non è solamente geografica né solamente
politica, dalle Alpi al Lilibeo è tutta una unità
inscindibile, ed è tutta in un travaglio morale,
politico ed economico, per risolvere la sua crisi (della
quale parte notevolissima è il Mezzogiorno) e riprendere
il suo cammino di civiltà e di progresso.
Il
coraggio
Stando e
vivendo fuori dell’ambiente meridionale, – nel contatto
con studiosi, uomini politici, economisti, finanzieri,
persone dedite agli affari, giornalisti di qualche
cultura e burocrati di discreta levatura – si ha
l’impressione che il maggior numero di costoro consideri
il problema meridionale anzitutto come un effetto
dell’indole, dei costumi, dell’indirizzo culturale,
della mancanza di iniziativa e di coraggio da parte
degli abitanti di queste belle e disgraziate regioni; in
secondo luogo come una questione di lavori
pubblici, specialmente locali, ai quali lo
stato già provvede con una certa specialità di metodi e
con concorsi finanziari più larghi che per altre
regioni, intervenendo anche di là da una equa misura per
quelle condizioni speciali che veramente esistono, ma
che spesso gli uomini politici del Mezzogiorno
esagerano, per abitudine retorica e a scopo di facili
clientele elettorali. Così la figura del meridionale è
caratterizzata, nella opinione di molti, come quello che
non fa, né sa fare quanto dovrebbe, per superare le
difficoltà del proprio ambiente, e mendica dallo stato
aiuti e favori, non sempre proporzionati o completamente
utili, né sinceramente disinteressati.
Sì, è vero, vi sono problemi speciali,
come quello degli agrumi e degli zolfi in Sicilia,
quelli del terremoto a Messina, in Calabria, nella
Marsica, la malaria, le arvicole, le frane in molte
regioni, i porti di Bari, Palermo e Napoli, le bonifiche
a Caserta, Salerno, Cosenza e Cagliari; ma in quali
regioni non vi sono problemi locali di varia natura e di
urgente soluzione?
Ogni provincia italiana, si può dire, ha
il suo bene e il suo male; forse per questo si è mai
parlato in Italia, come di questione permanente e
immanente di politica generale, di una questione
piemontese o ligure o lombarda o toscana o romagnola? I
più benevoli, quelli che han viaggiato (son pochi gli
italiani che viaggiano a scopo di studio e di politica
oggettiva) hanno, sì, una impressione generica di vari
problemi, come quelli della viabilità, dei trasporti,
del latifondo, della pubblica sicurezza nelle campagne,
e così via; ma per lo più deformati da preconcetti di
una letteratura romantica che ci diffama, oppure da
incomprensione degli stati d’animo della nostra
popolazione; sentiti attraverso la coloritura
sentimentale della nostra conversazione immaginosa e
superficiale, che spesso fa deviare anche gli studiosi
nelle loro inchieste ed analisi dei nostri mali.
Del resto è facile, in una conoscenza
affrettata, misurare le nuove cose apprese col metro
delle cose già conosciute in altri ambienti, e non
comprenderle nelle loro ragion d’essere e nel loro
profondo significato, onde viene eliso qualsiasi sforzo
pratico da una dualità di modi di valutare e di
apprezzare le stesse cose, che determinano due posizioni
veramente diverse fra il Mezzogiorno e il resto
dell’Italia. Pochi sono quelli che fuori della nostra
terra conoscono il nostro problema, e non tutti sono in
grado di far valere la loro esperienza. D’altra parte,
bisogna convenire che la falsa impostazione politica
della questione è dovuta a noi; siamo abituati oramai a
domandare al governo, più che allo stato, ogni aiuto,
ogni intervento diretto o indiretto, buono o cattivo,
efficace o inutile, possibile o impossibile; e ciò senza
che vi corrisponda, da parte nostra, una forma di
attività, di preparazione risolutiva, di cooperazione
efficace, di impostazione realistica e di solidarietà
politica delle nostre forze. Onde è purtroppo doloroso
dover constatare che da trent’anni che si parla
apertamente di questione meridionale (prima se ne
parlava sottovoce), non si è riusciti a rimuovere una
sola delle cause fondamentali della nostra inferiorità;
solo si è ottenuto (bontà degli eventi) quel tanto di
azione statale quanto se ne sarebbe ottenuta senza
parlare di questione meridionale, ma solo sostenendo
(come si fa in ogni regione) quei particolari interessi
o quelle necessarie provvidenze che rispondono a
determinati problemi concreti. Chi mai si sarebbe
opposto alla costruzione delle Calabro-Lucane, se
venivano proposte con la stessa semplicità con cui si
parlò della Cuneo-Ventimiglia o della Ovada-Genova? E
quando si pensò alle bonifiche emiliane, forse si diede
loro la stessa impostazione che all’eterno acquedotto
pugliese? Del porto di Savona si fece meno rumore e più
fatti che non di quello di Bari; e il porto di Palermo,
già in costruzione, è insidiato assai più che non sia
quello industriale di Venezia.
Voci
isolate
Nessuno potrà affermare che, senza
agitare la questione meridionale – come una paurosa e
complessa tragedia di un popolo –, non si sarebbero
ottenuti allo stesso modo quei provvedimenti e molti
altri, nella più o meno equa e razionale distribuzione
dei lavori pubblici. E mentre la letteratura sulla
questione meridionale è larga e vasta (come raccolta di
dati e studio di elementi), la impostazione politica del
programma è stata tentata solo sporadicamente e senza
efficacia da vari uomini nostri di qua e di là dal faro.
Ma sono state voci isolate, inascoltate, alle quali ha
fatto seguito la facile lamentela e la inefficace
protesta, quasi mai un’azione concorde e forte; e tutti
i provvedimenti adottati dallo stato hanno avuto una
particolare importanza per curare qualche fenomeno del
male, ma non affrontavano in pieno le causali del male.
Per arrivare a un risultato sicuro,
occorre anzitutto rifare il nostro orientamento,
superare la formula dualistica che pone in antitesi
Mezzogiorno e governo, anzi Mezzogiorno e stato, come
due entità diverse e in contrasto, come se noi
meridionali non fossimo elementi e forze costitutive
dello stesso governo e dello stato italiano. Anzi
occorre fare un passo ancora più decisivo. Occorre
superare il nostro stato psicologico che ci mette in
condizioni di inferiorità, perché nell’accentuare questo
contrasto e nel riportarlo alle condizioni diverse con
le altre regioni d’Italia (specialmente del nord),
sembra che si attenda un ausilio esterno, lontano,
invocato, invece di creare noi un programma politico
della questione meridionale, tale da divenire nostra
convinzione, nostra formula, nostra forza (al disopra
dei partiti politici che ci dividono) e farlo divenire,
con la efficacia delle minoranze convinte, pensiero
generale degli italiani.
È possibile ciò? Ci saranno questi
uomini, questi partiti, questo «club» intellettuale che
creerà nel Mezzogiorno la sua nuova coscienza e la sua
nuova forza?
(…)
La
sinistra
Il colera rivelò all’Italia meravigliata
la parte coperta e oscura di Napoli bella, come la crisi
zolfifera rivelò il «caruso» siciliano; i terremoti
fecero conoscere le Calabrie prima che Reggio, Messina e
la Marsica fossero distrutte; l’emigrazione come esodo
di popolo abbattuto economicamente, impressionò ed
allarmò governo e nazione; i fasci siciliani del ’93 e
le inchieste – celebri per i nomi di Jacini, Sonnino,
Franchetti, di San Giuliano – mostrarono il grado di
inferiorità economica e sociale della grande agricoltura
e del latifondo; Zanardelli corse alla scoperta della
Basilicata; così dal ’76 al ‘902, eventi tragici e
volontà di uomini politici fecero spuntare le
legislazioni del Mezzogiorno; ma non venne per questo la
unificazione spirituale; anzi fu accentuata la distanza
dualistica fa Mezzogiorno e governo, fra sud e nord.
L’avvento della sinistra con la
partecipazione del Mezzogiorno aveva aggravato la
concezione parlamentarista e la sua gravitazione sulle
masse elettorali, non ancora emancipate dalla influenza
personalistica e di campanile. La necessità del gioco
parlamentare, divenuto quindi vero metodo di governo,
detto «trasformismo», fece largamente sfruttare i
difetti di sentimentalismo, le condizioni di povertà
economica, la impreparazione tecnica e politica del
nostro Mezzogiorno.
(…)
Corruzione
Orbene, in questo pervertimento della
vita politica parlamentare, proprio il Mezzogiorno e la
questione meridionale figurano come «alibi» per una
politica economica a favore delle industrie dell’alta e
media Italia, e servono come base parlamentaristica ai
governi trasformistici di Depretis e di Giolitti, i
quali seppero penetrare ancora di più, e meglio dei
precedenti governi, nelle divisioni locali delle nostre
regioni, dominare con i favori e con le minacce.
L’elemento estremo del Mezzogiorno, da Imbriani a Bovio,
faceva della politica retorico-idealista; lo stesso
Colaianni che diede valido contributo allo studio dei
problemi meridionali, non seppe superare i forti
pregiudizi delle sue origini anticlericali e
repubblicane; e l’anticlericalismo meridionale servì
assai bene al gioco politico. Di tradizione tanucciana,
giurisdizionalista e statale, l’anticlericalismo prese
facilmente le classi intellettuali e gli spiriti
estremi, che in gran parte erano lontani dal pensiero e
dalla pratica cristiana. Esso fu legato, nella cultura e
nella concezione statale, allo spirito unitario e
nazionale; cosa che coprì la merce avariata delle
competizioni campanilistiche, dalla tolleranza della
mafia e della camorra, alle clientele locali prepotenti
e malversatrici; che il governo, con sapienza antica di
dominazioni spagnolesche, seppe tollerare e favorire, e,
a volte, anche, perché no?, minacciare, per il
disinteressato scopo di avere le maggioranze sicure alla
camera dei deputati, anche in provvedimenti che senza
dirlo, ferivano interessi vitali del Mezzogiorno. E
moltissimi votarono quelle leggi in buona fede; non ne
penetrarono lo spirito, non ne previdero gli effetti,
non ne conobbero la struttura, non ne valutarono la
portata economica e la ragione politica.
Il dominio era ed è purtroppo in mano
all’alta banca, e questa non è mai esistita nel
Mezzogiorno; il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia
sono enti pubblici, che hanno un compito ben
circoscritto e giustamente al di fuori dei giochi di
speculazioni e di impieghi aleatori, ed hanno, non certo
a loro vantaggio, la funzione di istituti di emissione,
che ne limita ancora di più la vitalità e lo sviluppo e
ne burocratizza la organizzazione. Comunque, l’azione di
tali istituti è ben localizzata e poco influisce sul
resto della economia nazionale e dell’orientamento
statale. L’alta banca e l’alta finanza erano altrove,
nella loro sede più naturale: influivano sulla vita
politica – in quanto è espressione e spesso conseguenza
del fenomeno economico – e ne determinavano lo sviluppo,
in quanto la politica può, a sua volta, creare e
sviluppare il fenomeno economico.
(…)
Le stesse industrie, a tipo domestico e
artigiano, – che prima del 1860 avevano nel Mezzogiorno
promettente sviluppo, non inferiore a quello del nord,
quale la seta, la lana e il cotone – non potevano
attirare l’attenzione dei finanzieri, perché vennero
meno col cadere delle linee doganali interne e non
poterono tentare la loro trasformazione industriale,
perché lontane dal mercato generale. La stessa marina
mercantile napoletana e siciliana – che primeggiava in
confronto alle altre – con l’unificazione perdette la
sua posizione; la Sicilia rimase ancora per parecchio
tempo nel tentativo di trasformazione, e certo ne ebbe
vantaggio, finché anche questa industria non si coordinò
con quella ligure.
Il Mezzogiorno fu perciò considerato
esclusivamente agricolo; di un’agricoltura arretrata, di
poco rendimento, meno le zone vesuviane o etnee o della
conca d’oro, le litoranee adriatiche e tirrene.
Agricoltura del latifondo abbandonato dal proprietario,
agricoltura di rapina del gabellotto o del
subaffittuario, agricoltura afflitta dal brigantaggio di
campagna, dalla mafia, dall’abigeato, dalla malaria e
dal disboscamento. Chi avrebbe affidato i capitali a un
tale Mezzogiorno senza istruzione e senza volontà, i cui
mezzi finanziari non potevano rispondere al ritmo
rigoglioso e orgoglioso della economia moderna?
Intervenga lo stato e faccia quel che può; faccia
strade, faccia scuole, faccia acquedotti, porti un po’
di civiltà; e poi il mondo finanziario accorrerà in
aiuto del Mezzogiorno.
Questo è stato il grande errore di
impostazione della «questione meridionale» e il processo
storico e legislativo fino allo scoppio della guerra. Ma
la guerra rivelò un Mezzogiorno ancora povero e ingenuo
nei suoi figli, così robusto però moralmente, così sano
spiritualmente, così pieno di energia e di resistenza
fisica – pur sulle creste fredde di montagne nevoso,
alle quali non era abituato – così devoto al sacrificio
per la patria, da far pensare anche agli estranei che il
Mezzogiorno non può essere guardato come una colonia
economica, o come campo di sfruttamento politico, o come
regione povera e frustra, alla quale lo stato fa la
concessione di una particolare benevolenza. No, il
Mezzogiorno è vivo come un’entità integrante la vita
stessa nazionale, come una forza reale da sviluppare
nella sintesi delle forze italiane; il suo travaglio
economico e morale è il travaglio della intera nazione.
Egemonia
Poiché il fenomeno che abbiamo descritto
è stato fin ieri costante; e poiché l’istinto economico,
se vi fossero stati mutamenti sostanziali nelle correnti
generali in rapporto al nostro problema, li avrebbe
rivelati subito; è necessario renderci esatto conto
delle ragioni sostanziali che, direi quasi, giustificano
il fatto economico che si è svolto dal ’60 al ‘915,
senza per questo giustificare il fatto politico, al
quale tutt’al più si daranno, come dicono i giudici,
delle attenuanti.
La lotta insinuata fra nord e sud non è,
né può essere guardata come una lotta di egemonia
politica ed economica; anche perché il sud non può dirsi
che abbia lottato; ha mormorato, ha protestato, ha
scritto libri ed opuscoli, ha fatto discorsi; manca in
tutto ciò la sostanza e il terreno della lotta. C’è
stato invece un naturale assorbimento di forze; dico
«naturale», perché non saprei altrimenti definire questa
azione di flusso economico verso il nord. Infatti, tutto
lo sviluppo della economia europea, dall’epoca
napoleonica in poi – sotto l’influenza della
trasformazione della industria piccola e domestica in
grande industria manifatturiera, dopo l’apertura di
grandi traffici e la invenzione di mezzi rapidi e
potenti di comunicazione – prima nella concezione
liberista di marca inglese, e poi nel regime
protezionista – superato il periodo di assestamento
europeo con l’unificazione italiana e la costituzione
dell’impero germanico, nella pace che seguì la guerra
del ’70, lo sviluppo economico industriale e l’attività
commerciale erano di fatto centro-europei. L’Italia, con
il suo porto di Genova e l’hinterland lombardo, con le
nuove comunicazioni rapide con la Francia, la Svizzera e
la Germania; l’Austria-Ungheria con Trieste e Fiume e il
vasto hinterland commerciale dell’ex-impero, formavano i
campi di attrazione e trasformazione industriale e
commerciale, verso cui doveva gravitare gran parte della
economia del nostro paese. Era quindi naturale che in
alta Italia si intensificassero i trasporti, che la rete
ferroviaria fosse più densa, che le industrie fiorissero
e che la popolazione, già favorita dalle migliori
condizioni del suolo e dell’abitato, in un ritmo più
accelerato del giro del denaro, potesse con minori
difficoltà (che del resto non furono poche) superare la
crisi del nuovo regno – nell’abbattimento di vecchie
barriere e nella trasformazione dell’antico artigianato
– conquistare una competenza tecnica, vincere nella
lotta e divenire i forti industriali, i commercianti
audaci, i finanzieri coraggiosi della nuova Italia.
Sventura volle che alle iniziative sane si unissero
quelle non sane, le parassite, e che queste divenissero
centro di speculazioni politiche attorno al governo che
mancava di una visione complessiva esatta, sia nel
coordinamento di una politica economica nostrana con la
politica estera. Qui sta il perno della crisi
meridionale. Nel rigoglio di queste nuove forze e nel
bisogno di protezione e di danaro, l’economia del nord,
cioè tutta l’economia industriale dell’Italia, non
poteva che rivolgersi al governo e alle banche, e, a
mezzo di queste, esercitare la funzione (naturale
anch’essa) di assorbire le energie minori, di utilizzare
a proprio vantaggio altre forze, di orientare a sé il
resto del proprio mondo; e come si comprava con i
migliori salari la «connivenza» (non sempre nel senso
buono) delle classi lavoratrici, orientate verso il
socialismo, così si conquistava con i «premi politici»
(dico così per pudico eufemismo) il consenso di
«sfruttamento» (senza fini cattivi, anzi spesso senza
averne la coscienza), dico, di sfruttamento delle
energie e della condizioni del Mezzogiorno. Non vi fu
perciò lotta egemonica, ma lento assorbimento,
depauperamento, disintegrazione, irrigidimento nel campo
dell’amministrazione locale e della ripercussione
politico-parlamentare, nel campo dello sviluppo
industriale e agricolo. Le forze del Mezzogiorno
perdettero o meglio non acquistarono mai l’iniziativa
politica – non ostante avessero avuto uomini validi al
governo da Bonghi a Gianturco – e non ostante che per
alcun tempo meridionali fossero a capo del governo,
sopra tutti Crispi, che, pure tra grandi difetti e
avversioni, ebbe almeno una concezione meridionale che
fu insieme italiana. Infatti voi avete il diritto di
domandarmi: c’era una concezione economico-politica
meridionale che potesse coesistere con lo sviluppo
industriale dell’alta Italia, sviluppo naturale, e
perciò non sopprimibile né coercibile, al quale
opportunamente, logicamente, si volsero le altre forze
politiche e finanziarie del paese?
A questa domanda, che è la domanda
centrale del problema, e come critica storica pel
passato e come costruzione per l’avvenire, mi sforzerò
di dare una risposta chiara e, spero, decisiva, per la
migliore comprensione della «questione meridionale».
La
guerra
Come l’alta Italia ha una zona naturale
di commercio e di comunicazione che s’irradia
nell’Europa centrale, specialmente del nord e dell’est,
ed ha il suo sbocco a Genova – ed è bastata l’apertura
delle Alpi prima e la triplice alleanza poi, a creare
fino allo scoppio della guerra una economia che avesse
per centro Milano – e in seguito alla guerra abbiamo
meglio conosciuto il valore economico di Trieste e Fiume
in rapporto al bacino danubiano; così il Mezzogiorno
continentale e le isole hanno la loro zona nel
Mediterraneo, e sono non solo il ponte gettato dalla
natura fra le varie parti del continente europeo in
rapporto alle coste africane ed asiatiche, ma il centro
economico e civile più adatto allo sviluppo di forze
produttive e commerciali e punto di interferenza degli
scambi.
Il Mediterraneo fu sempre il bacino
dell’Europa più denso di traffici; e la civiltà di vari
millenni dimostra che sempre il Mediterraneo avrà una
sua economia che non può venir meno, perché basata su
necessità naturali.
(…)
Dopo la guerra l’Italia si è incantata
nell’episodio fiumano nell’alto Adriatico, episodio
sentimentale e doloroso, ma che poteva avere, in un
quadro generale, una soluzione migliore di quella data
oggi con i trattati di Rapallo e di Santa Margherita; e
non tenne conto del Mediterraneo, del quale è parte viva
l’Adriatico, non come un lago morto e per sé stante, ma
come un braccio di mare teso dal sud al nord, in una
vitalità di commercio col centro continentale.
Escludo che questa si chiami politica
imperialistica, lontana dal pensiero e dalle convinzioni
di noi popolari. Un paese che, come il nostro, ha
esuberanza di braccia e necessità di espansione, non
può, senza diffamare il proprio nome, fare una politica
emigratoria di lavoratori senza capitali e con scarsa
preparazione tecnica e intellettiva e inondare i mercati
mondiali – determinando le ripercussioni di concorrenza
nella mano d’opera e lo sfruttamento del lavoratore –;
ma deve sforzarsi di divenire centro di una economia
relativa alle proprie fonti produttive, e crearvi
attorno una larga sfera di consensi e di attrazione; non
solo per correggere il fenomeno emigratorio, ma per
trasformare la sua stessa potenzialità produttiva in
realtà di commerci e di industrie. Questo doveva essere
il programma italiano della nostra politica
mediterranea, l’indirizzo costante e intelligente, nelle
difficoltà perenni e insidiose della politica estera.
Alcuni opinano che storicamente sia un
errore credere che il sud Italia possa avere una sua
floridezza, e quindi divenire un notevole centro
economico del bacino mediterraneo, sì da determinarvi
una politica realistica. Senza voler fare una
discussione storica – che si allontanerebbe dalle linee
di un discorso – credo che il tema della povertà
naturale del Mezzogiorno abbia forzato la mano perfino
ad uno studioso e profondo conoscitore del nostro
problema quale Giustino Fortunato. Nessuno nega che le
condizioni fisiche, demografiche ed economiche delle
regioni del sud siano difficili e siano state aggravate
dalle vicende storiche; ma sarebbe errore conchiudere
per una inferiorità insanabile.
(…)
Giustino Fortunato, nel suo severo esame,
confrontando nelle varie epoche le condizioni del nord
con quelle del sud, arriva alla conclusione della
superiorità delle prime sulle seconde per condizioni
naturali profonde e insopprimibili. A parte la non
completa valutazione storica e pur consentendo in molti
rilievi economici, egli obbediva a preoccupazioni
polemiche: quella di dimostrare che la unità italiana
non ha danneggiato il Mezzogiorno (tesi che per noi è
superata e dal fatto e dal valore che noi diamo
all’unità nazionale, al disopra di qualsiasi altro
interesse), e la preoccupazione di dimostrare che a un
Mezzogiorno naturalmente povero, occorre la solidarietà
nazionale per farlo risorgere, il che può diventare un
errore di impostazione del nostro problema. Il
Mezzogiorno, non ostante le sue povertà naturali, la
contrarietà del suo clima e la sua deficiente
organizzazione sociale e politica, ebbe periodi di
floridezza; e questi coincisero con una politica
mediterranea. Veramente la parola «politica» nel senso
moderno non è punto esatta, perché più che linee e
direttive di politica voluta e prestabilita (a parte il
periodo romano), vi furono fenomeni e fatti politici
sotto l’influsso delle economie prevalenti. Queste
crearono città come Siracusa e Agrigento, Taranto e
Bari, Pesto, Capua e Benevento, Amalfi e Salerno,
Palermo e Napoli; cioè il Mezzogiorno della costa
lussureggiante o della pianura ferace, a cui faceva capo
la produzione agricola e pastorizia dell’interno, e la
ricchezza mercanteggiata nel Mediterraneo. Il
Mezzogiorno povero – che soffre di tutte le avversità
del clima, di tutte le asprezze della terra, di tutte le
oppressioni fiscali, delle incursioni barbariche, della
rapacità straniera, che per essere difeso diventa feudo
della Santa Sede – è quello che non ha potuto
polarizzare la sua economia verso la costa, non ha
potuto formare il ceto agrario libero e produttivo con
l’enfiteusi, non ha potuto superare le difficoltà dei
trasporti e avvicinarsi al mondo che pulsa negli affari
e nella vita: lotta gigantesca di secoli per ogni
popolo, nel flusso e riflusso della civiltà e della
economia.
Quando la economia si sposta verso il
nord e i banchieri toscani e genovesi tengono il mondo
europeo in pugno; e le Americhe aprono al vecchio
continente nuove attività; e il turco incalza in
Oriente; il regno delle due Sicilie diventa un punto
dello scacchiere delle grandi forze in gioco e in lotta,
che è conteso per l’equilibrio europeo e per il dominio
delle famiglie reali e imperiali; ma la sua decadenza è
segnata, come la decadenza greca sotto l’impero romano,
e le sue forze intime si irrigidiscono; finché, nel
secolo XVIII, poté formarsi una nuova coscienza
politica, e dare un primo impulso alla valorizzazione
delle sulle sue forze, che nel secolo XIX prepararono il
nostro risorgimento.
L’unità
L’unità nazionale fu così la vera forza
di salvezza del Mezzogiorno, creò ad esso una coscienza
e politica e diede una spinta nuova di forza economica.
Occorreva trovare il suo centro di sviluppo e di vita, e
questo centro è il Mediterraneo.
Si domanda da parecchi se è mai possibile
che, nelle condizioni presenti, il Mezzogiorno possa
superare le difficoltà economiche; e, sia pure favorito
da un indirizzo politico prevalentemente mediterraneo,
vincere la lotta della concorrenza e passare da
un’economia quasi passiva a un’economia attiva.
Ora io affermo con ogni convinzione che
questo Mezzogiorno povero, con condizioni fisiche aspre
e difficili, che ha una ragione di permanente
inferiorità agricola nella sua scarsa umidità, nelle
lunghe siccità e nelle piogge irregolari, che ha da
secoli accumulato rovine con i disboscamenti, con le
frane, con la malaria; questo Mezzogiorno, non
bonificato e senza una coscienza industriale, né
un’attrezzatura commerciale, né una finanza bancaria
forte e autonoma, può risorgere; se (badisi al se) la
politica che la nazione italiana, non solo i governi ma
la nazione italiana, saprà fare, sarà una politica forte
e razionale, orientata al bacino mediterraneo, cioè atta
a creare al Mezzogiorno un hinterland che va dall’Africa
del nord all’Albania, dalla Spagna all’Asia Minore; se
questo significherà apertura di traffici, circolazione
di scambi, impiego di mano d’opera, colonizzazione sotto
il controllo diretto dalla madre patria; perché tale
fatto darà la spinta a creare nel Mezzogiorno
un’agricoltura razionale e maggiore sviluppo di
commerci, pari alla propria importanza produttiva.
Intendiamoci: il risorgimento meridionale
non è opera momentanea e di pochi anni, o che dipenda da
una qualsiasi legge, o che venga fuori dalla semplice
volontà di un governo; è opera lunga, vasta, di salda
cooperazione nazionale; e che come spinta, orientamento,
convinzione, parta dagli stessi meridionali. Quando
perciò imposto il problema nella sua ragione
fondamentale di politica economica ed estera, intendo
riportarlo alla sua essenza, ma non credo che sia perciò
risolvibile a tamburo battente.
Spiego anzitutto il termine di
connessione. La spinta a una grande trasformazione
economica deve essere data dalla certezza del vantaggio,
e dalla sicurezza che sarà per quanto è possibile
duratura. Per quante leggi si facciano, non si possono
superare queste barriere della economia; né d’altro lato
era possibile per il passato, e molto meno sarà
possibile per l’avvenire, pretendere che lo stato abbia
mezzi adeguati a concorrere utilmente ed efficacemente
alla trasformazione economica del Mezzogiorno; né è a
credere che lo stato possa impunemente violare le leggi
economiche, e creare d’un tratto una forza produttiva
ove non esista.
Lo sforzo politico deve essere, per la
legge naturale, pari allo sforzo economico, necessario a
vincere gli ostacoli che si frappongono ad avere una
produzione rimunerativa. Qui sta il nodo del problema;
qui debbono convergere le forze autonome, quelle
nazionali e quelle statali; cioè quelle morali, quelle
economiche e quelle politiche.
Commette un grave errore chi nega al
Mezzogiorno lo sforzo di superamento, limitato a modeste
energie, reso difficile da condizioni asperrime, a
crearsi una agricoltura nazionale (nessuno dirà che
l’agricoltura del 1860 e quella di oggi siano le
stesse), a tentare la trasformazione dei prodotti
propri. Lo sforzo è stato discontinuo, limitato ad
alcune zone, provato da crisi fortissime, senza una vera
assistenza da parte dello stato, la cui opera è stata
deleteria principalmente per tre ragioni: per il regime
doganale, per la pressione tributaria e per la
uniformità di legislazione economica.
Non posso che limitarmi ad alcuni accenni
rapidissimi, dato il tema di questo discorso.
Uno dei criteri fondamentali che doveva
dirigere la politica dello stato italiano, fin dal 1860,
doveva basarsi sul fatto che il Mezzogiorno era paese
naturalmente povero, di scarsa potenzialità economica e
in condizioni non favorevoli di espansione; invece, si
magnificò retoricamente la bontà e l’ubertà della zona
dove fiorisce l’arancio, si ricordò il giardino delle
Esperidi, si esaltò il bel cielo, il sole fecondo, la
terra ferace.
L’errore
Errore di prospettiva iniziale, che diede
le prime delusioni, ma quando cominciò lo sforzo di
produttività agricola, sotto il favorevole regime del
trattato commerciale del 1863 stipulato con la Francia
(verso la quale, in regime abbastanza libero, si orientò
il Mezzogiorno); e già le migliorate condizioni dei
trasporti, nella relatività di quel periodo cominciavano
a destare le prime energie, dopo tanto tempo di torpore,
ecco il primo colpo grave inferto al Mezzogiorno
agricolo con le tariffe doganali del 1877. Con esse si
inaugura il regime protezionista – voluto anche dagli
stessi meridionali –, con la convinzione che anche noi
potevamo creare la nostra industria, non pensando che,
per creare un’industria che vinca la concorrenza,
occorre almeno parità di condizioni: cosa che il
Mezzogiorno non poteva ottenere, se non altro per la
distanza e i costi di trasporto. Questi venivano per di
più alterati dalla protezione siderurgica e dalla
ripercussione sulla mano d’opera e sui consumi generali.
Il circolo vizioso, che è legato alla protezione, fa
pagar dalla stessa economia quel che si crede di
vantaggio generale e che invece diviene il vantaggio di
una economia privata.
Che dire poi quando l’industria protetta
è anche, direttamente o indirettamente, sovvenzionata o
premiata? Oltre il contributo che dà l’economia
nazionale per la inferiorità della propria produzione da
smerciare all’estero (ricordiamo, noi meridionali, che
il trattato di commercio con la Francia, rinnovato nel
1881, fu denunziato nel 1887, e la guerra di tariffe che
ne seguì sconvolse i nostri mercati), vi è anche il
danno che ne soffre il contribuente, che paga le tasse
allo stato, perché questo le trasformi in premi
all’industria protetta. Con questo sistema di
soffocamento i meridionali credettero di poter avere
un’industria con il concorso statale, mentre il regime
di protezioni e di premi giovava all’industria del nord
e danneggiava il nostro mercato.
I trattati commerciali, specialmente con
l’Austria e la Germania, del 1891 e 1892, giovarono in
qualche modo all’agricoltura, ma allora l’emigrazione
agricola andava prendendo grave e pernicioso sviluppo, e
la crisi bancaria toglieva quella parte di risparmi che
doveva essere destinata alla produzione. E pure lo
sviluppo del commercio dell’olio, del vino, degli
agrumi, degli ortaggi e frutta fresca e in conserva,
crebbe notevolmente; quale mai sarebbe stata la spinta
alla trasformazione agricola del sud, se il regime
doganale fosse stato meno ingiusto? Si dice che in
compenso si ebbe il dazio sul grano: vecchio errore già
confutato dall’on. Colaianni. È facile dimostrare che,
in rapporto alla popolazione meridionale, la produzione
granaria del Mezzogiorno è insufficiente al consumo
locale, quindi anche il Mezzogiorno è tributario
all’estero e paga, o pagava, il suo dazio sul grano
anche per le sue industrie granarie e le sue paste; per
le quali è necessario lo scambio di qualità per le
razionali miscele. Il dazio doganale servì allo stato
come cespite d’entrata; e favorì i produttori di ogni
regione, anzi più il nord che il sud, perché il costo di
produzione granaria è meno alto nel settentrione. Del
resto, tanto l’assenza di tale dazio quanto la sua
permanenza dà luogo a speculazioni di mugnai o a
guadagni di commercianti o a utili di latifondisti, nel
gran crogiolo che è il traffico di simili derrate.
Il sistema doganale non ebbe
miglioramenti, né mutamenti di indirizzo fino alla
guerra. Nella discussione dei trattati doganali il
contrasto fra economia agraria ed economia industriale
ebbe rilievi degli economisti e sulla stampa; qualche
vantaggio particolare, ottenuto per l’agricoltura, non
modificò l’indirizzo protezionista industriale. Dopo la
guerra, l’oscillazione della moneta e il regime
proibitivo che sopravvisse, resero difficile la ripresa
commerciale specialmente dei prodotti del Mezzogiorno.
Austria, Russia e Germania, mercati della nostra
agricoltura, non hanno, e per qualche tempo ancora non
avranno, capacità di acquisto; la Francia è meglio
servita dalla Spagna e tenta già la sua unione doganale
con Tunisi; la tariffa doganale Alessio ha confermato e
aggravato il vecchio regime protezionista, ferocemente
voluto dalla pazza economia del dopo guerra da tutti gli
stati e al quale regime l’Italia non poteva da sola
sottrarsi. Oggi i trattati di commercio che si vanno
stipulando potranno giovare al Mezzogiorno, se il
Mezzogiorno saprà farsi valere.
Altro colpo forte all’economia nostra è
stato dato dal sistema tributario.
(…)
Sono stati raccolti con diligenza i dati
statistici di sperequazione tributaria fra nord e sud,
che servivano a sfatare il pregiudizio (da qualcuno
ancora oggi mantenuto, ma credo per ignoranza) cioè che
il Mezzogiorno pagasse meno del resto d’Italia; fu
dimostrato ad esuberanza che pagava di più, non solo
relativamente, in quanto più povero, ma anche
assolutamente, cioè nel rapporto di parità fra tutte le
regioni. E pensare che quando fu deliberato il nuovo
catasto, fu dai più ritenuto che tale legge di
perequazione fondiaria dovesse essere un atto di
giustizia verso l’agricoltura del nord, che si riteneva
gravata molto di più di quella del sud. È bastato che il
catasto si ultimasse (cosa che ormai può servire per la
descrizione parcellare della proprietà, non mai per la
riforma tributaria), per dimostrare tutto il contrario;
tanto che Sonnino propose la riduzione del 50 per cento
della fondiaria erariale a favore delle provincie
nostre.
Il sistema proporzionale e non
progressivo dei tributi sui terreni ha evidentemente
danneggiato l’agricoltura meno ricca, come quella del
Mezzogiorno; per giunta i nostri terreni sono quasi
tutti gravati da oneri ipotecari, sì da potersi
affermare che la proprietà meridionale rurale abbia due
padroni; però nel fatto è il padrone primo – quello che
coltiva e che nella maggior parte dei casi ha fatto tali
debiti per coltivare e trasformare la sua terra – che è
anche colpito dalla ricchezza mobile del mutuo; e senza
speranza della presunta rivalsa. Ed è strano il fatto
che mentre all’industria si deduce il passivo del
debito, all’agricoltura non si deduce. Tutta la storia
dell’imposta e della sovrimposta, con vecchio e col
nuovo catasto, in rapporto al Mezzogiorno, è intessuta
di errori e di danni, non riparati nemmeno oggi, anzi
aggravati da una campagna furiosa, fatta dagli
industriali a mezzo dei loro giornali per colpire di
ricchezza mobile l’industria agricola diretta, che era
stata esentata, allo scopo di sviluppare sempre meglio
le energie agricole responsabili e trasformatrici in
confronto alle altre. I recenti provvedimenti De Stefani
possono avere una giustificazione nelle condizioni
dell’erario, per quanto ci sia da dubitare assai di una
possibilità organizzativa del contributo senza gravi
sperequazioni e di una reale utilità della imposta
stessa; certo che, come viene costruita, va a colpire
ancora di più la nostra agricoltura meridionale.
Il danno
Chi non ricorda il danno notevole che
viene a noi per il fatto dei nostri centri rurali
agglomerati e densi di popolazione agricola, quali nelle
Puglie, nell’interno della Sicilia e della Sardegna, e
in quasi tutto l’interno del continente? Sono case di
contadini che, considerate come abitazioni urbane,
vengono regolarmente colpite. E questo fenomeno
demografico e sociale, imposto da condizioni fisiche,
storiche e politiche, e che è argomento di inferiorità
economica, si ripercuote in tutto il regime fiscale ed
economico dello stato. I comuni sono classificati in
base alla popolazione, agli effetti del dazio di consumo
e delle varie tasse comunali. Questa classificazione
opera in senso inverso per i sussidi e gli aiuti
finanziari dello stato, per le scuole, per gli
acquedotti e per ogni altro provvedimento. Onde, a
correggere questa sperequazione, sono state create leggi
a favore, quali le leggi speciali per la Sardegna, per
la Basilicata, per la Calabria, e la legge fondamentale
del 1906 per tutto il Mezzogiorno. Ma mentre la
pressione tributaria e il regime doganale operano con
costanza e normalità, le leggi di favore non sono
applicate: ovvero, nella loro applicazione, subiscono, e
per i limiti del bilancio e per le ulteriori difficoltà
finanziarie (dalla guerra libica ad oggi), una costante
diminuzione, sicché il disquilibrio fra le regioni delle
altre parti d’Italia e il nostro Mezzogiorno ne viene
più che mai aggravato.
Questo accenno vale per la terza causa di
inferiorità nostra, cioè la uniformità legislativa,
specialmente nel campo economico. Questo errore iniziale
del regno italiano è riconosciuto da tutti, ma non è
affatto rimediato.
Le leggi non sono creazione aprioristica
di cervelli – siano pure come quello di Giove, dal quale
uscì Minerva -; sono invece, e hanno un vero valore, un
processo di realtà vissuta e concreta che, in un
determinato momento critico, trovano la loro espressone
morale, legale e la loro formula scritta. Questo
processo dinamico della realtà economica e
amministrativa dovrebbe essere lasciato all’adattamento
locale: come avviene in Inghilterra, come in parte era
nella vecchia Austria, come, per il sistema federativo
di un tempo, aveva il suo naturale fondamento anche
nella Germania di ieri. Invece l’Italia prese per
modello la Francia, la Francia di Napoleone e la Francia
repubblicana, dove la vita centralistica di Parigi
assorbe e polarizza tutta la Francia, e dove la
tradizione storica e l’ampio respiro economico assorbono
le energie di provincia e spesso le annullano. Così le
leggi scritte, stilizzate fino all’ultima virgola, i
regolamenti di esecuzione sino ai più minuti dettagli,
partono dal centro, dall’unità di dominio e di
interessi.
In Italia, questa unità di dominio e di
interessi mancava. La diversità delle sue regioni e la
dualità delle zone, di qua e di là del Tevere, davano
vari centri, non un centro. Roma è centro storico,
morale, non economico. L’Italia non poteva trovare una
misura unica, che creasse una metropoli per tutta la sua
lunga linea dalle Alpi al Lilibeo: doveva imitare
l’Inghilterra, non la Francia, e dare il dinamismo
legislativo alle sue forze varie, non la forza statica
dei suoi regolamenti;
(…)
Un torto
L’elenco dei vari rami dell’economia e
dell’amministrazione è molto lungo, e mi fermo: siamo
tutti convinti che per l’Italia non solo la legge
uniforme è un errore sostanziale, ma è anche errore la
legge speciale, fatta con mentalità livellatrice e
formalistica, avulsa dalla realtà pulsante e viva di
coloro che sentono e operano nelle varie regioni.
È questo un torto la cui colpa è da
attribuirsi specialmente ai meridionali. Quando i nostri
uomini politici, i nostri industriali e agricoltori, i
nostri burocratici sono fuori dell’ambiente e vanno a
partecipare ai consessi politici o economici, mostrano
una grande agilità di mente, spesso prontezza di
comprensione e genialità, adattamento facile ed
intuizione rapida; ma si lasciano inserire nel ritmo
della politica, dell’economia e della legislazione,
ispirata e metropolizzata nel nord; e quando essi
prospettano incompleti, frammentari – in forma
sentimentale e idealistica – i problemi del sud, li
isolano, li riducono a forme concessive e di eccezione,
e invece di risolverli, li fanno complicare e alterare
nel crogiolo delle leggi e dei regolamenti.
Sotto questo aspetto deve guardarsi il
problema delle spese pubbliche nel Mezzogiorno, che non
sono semplici criteri di favori che lo stato elargisce,
ma ragioni organiche di vita locale o mezzo e strumenti
di sviluppo generale, che lo stato integra o assume a
suo carico, per la rivalutazione di energie produttive.
Ma tutto ciò è impossibile se non si
riforma il metodo, se l’Italia del sud non prende la sua
posizione politica di saper fare e volere le sue leggi
come elementi diretti della sua attività e del suo
pensiero, e di saperle attuare con le sue forze
organiche e con la sua caratteristica regionale. Oggi si
può parlare di regione, senza violare il principio
nazionale e unitario: ebbene, parliamone noi, che
dobbiamo, meglio degli altri, conoscere i nostri bisogni
e i nostri interessi, e che dobbiamo superare la nostra
crisi, non domandando l’elemosina dei favori
governativi, ma creando la nostra coscienza politica,
nell’organismo della nostra vitalità e nel naturale
sviluppo della nostra forza.
Così rispondo affermativamente al
quesito, che assilla il pensiero italiano e meridionale,
se il Mezzogiorno può trasformarsi da un regime
economico passivo a un regime attivo – si intende, nella
affermazione di una politica mediterranea –; ma a
condizione che si superino le barriere poste dal regime
doganale, dalla pressione tributaria, dalla legislazione
uniforme e livellatrice.
Vi sono energie adeguate del Mezzogiorno
per potere – sia pure con la linea politica così
precisata nel triplice rapporto economico, tributario e
amministrativo – affrontare il suo avvenire come centro
mediterraneo? A questa domanda l’istinto mi dice di
rispondere di sì; ma prima di rispondere, occorre
analizzare i fattori sostanziali di questa rinascita.
Il primo è quello delle braccia dei
nostri lavoratori meridionali. L’emigrazione è stata una
penosa «via crucis» tanto dell’emigrante fuori patria,
quanto della nostra economia e della nostra vitalità
civile e domestica in patria.
(…)
Ma questo fenomeno, ieri dannoso e oggi
confortevole, ha mostrato che il nostro lavoratore
meridionale ha volontà, energia, facilità di
apprensione, forza di resistenza. Ora, perché non può in
patria dimostrare quanto dimostra all’estero? È notevole
questo fenomeno: trasportate il meridionale fuori del
suo ambiente, mettetelo nel contrasto della vita, perché
ne superi le difficoltà, toglietelo dalle impressioni
scoraggianti di impotenza, e ne farete un altro uomo.
È l’ambiente nostro, che deve essere
trasformato e vivificato. A far ciò occorrono i mezzi
idonei. Il rilievo principale, che ho letto in molti
libri che parlano del Mezzogiorno, è che non vi sono
capitali e che il ritmo del denaro è tardo. Gli statisti
daranno ragione a coloro che dicono che il Mezzogiorno
non ha capitali; io dico che esso non ha fede nel suo
capitale, e quindi gli altri non hanno fede in esso, non
perché di fatto non vi siano dei capitali – benché in
misura inferiore alla media generale per abitante
italiano –; ma perché questo capitale o è messo nelle
casse postali e di risparmio, ovvero in istituti che
sviluppano la loro attività principale fuori del
Mezzogiorno, e in imprese che poco di daranno in fatto
di risorse e di compensi.
I padri
(…)
Questa forza di risparmio e le agevolezze
del credito agrario oggi, nella crisi economica
generale, hanno limiti imposti o insormontabili; è la
condizione generale del nostro paese, che ci fa invocare
con opportune prudenze e precauzioni, il capitale
straniero. Il tentativo di impianti idroelettrici, fra i
quali primo e di grande importanza nazionale
l’utilizzazione delle acque della Sila (il cui piano ha
già avuto, oltre le agevolazioni di legge, parte del
finanziamento); il programma di bonifica agraria e di
irrigazione (primo e di enorme utilità quello della
piana di Catania, in corso di concessione); il
completamento della rete stradale agraria e comunale,
esigono capitali ingenti; altri capitali occorrono per
gl’impianti trasformatori dei prodotti agricoli, di cui
abbonda il Mezzogiorno. La nostra capacità ed i limiti
del nostro risparmio non sono adatti a simili imprese; i
nostri banchi, i nostri istituti di risparmio non
possono affrontare l’immobilizzo del denaro; ma basta
che i nostri capitali mostrino di non rifuggire da tali
imprese, per orientarvi fiducioso il capitale del nord e
quell’altro straniero, che ha bisogno di sfogo e di
utile impiego.
L’on. Luigi Luzzatti ammoniva nel 1901:
«quale sarà l’avvenire del Mezzogiorno, tale sarà quello
del regno, poiché se non si rialzano le sue sorti, esso
impoverirà le altre parti d’Italia»; però, a destare
questa solidarietà, il Mezzogiorno ha la potenzialità
non solo nella facoltà di risparmio ancora forte, perché
la vita da noi ha meno agi ed è più vivo il senso della
parsimonia, ma nell’istinto di salvezza, che oggi è più
imperioso, perché la crisi generale opera come stimolo
decisivo.
Io ho fede nelle nostre forze naturali;
perchè queste possano utilizzarsi, occorre una efficace
preparazione, che sarà un’altra vigilia (come fu aspra
vigilia l’emigrazione), cioè l’avviamento della gioventù
alla sua formazione tecnica.
Miseria
Errore e miseria han portato una parte
del ceto semiborghese, e anche del ceto operaio, verso
l’impiego: l’istruzione secondaria di ginnasio, di
scuole tecniche e anche (strano a dirsi) di scuole
agrarie, han preparato una falange in cerca di posti.
Il piccolo impiego comunale di usciere,
di commesso di segreteria, l’impiego della guardia di
finanza, del carabiniere, della guardia di pubblica
sicurezza, l’impiego burocratico dello stato danno una
fortissima percentuale di meridionali. La non
sufficiente rimunerazione (oggi che i costi sono così
alti) e lo sfollamento burocratico serviranno (come è
capitato alla guardia regia, che aveva almeno l’80 per
cento di meridionali) a dare un colpo a questa
concezione casalinga del modesto ma sicuro impiego,
ricercato anche per una pretesa elevazione sociale nel
poter lasciare i ferri del mestiere e indossare una
divisa.
Occorre invece una preparazione e
istruzione tecnica e professionale, per avere una nuova
generazione che si orienti verso il mondo del lavoro
utile e produttivo. Via le così dette scuole popolari
tecniche; diamo al Mezzogiorno scuole professionali
specializzate; formiamo veramente uomini preparati alla
lotta, sia che vadano all’estero, sia che restino in
patria. L’operaio italiano è preferito, non solo per
l’assiduità del lavoro e la sua sobrietà (almeno in
confronto con gli altri), ma per la sua facilità
nell’apprendere e nell’adattarsi, e non solo perché
costa meno, ma per il suo rendimento; onde per questo
lato le nostre industrie possono bene affrontare e
superare la concorrenza. Ma se questo geniale lavoratore
fosse tecnicamente preparato, avrebbe una potenzialità
assai maggiore, e potrebbe servire all’inquadramento e
alla guida di quelle forze, che noi abbiamo, e che non
sappiamo utilizzare.
(…)
Un
problema
Un problema tecnico-sociale, che, per la
sua vastità, può ben dirsi un problema meridionale
(benché non tocchi tutte le nostre regioni) è quello dal
latifondo, e si connette alle condizioni economiche,
demografiche, sociali e morali del nostro contadino. Che
egli agogni a due beni, il pezzo di terra e la casetta,
è noto a tutti; ne sente intera la passione, che ha un
fondamento domestico sano e razionale; una delle piaghe
di zone come le Puglie e l’interno della Sicilia, è
proprio il bracciante o il salariato, che vive nei
centri urbani e non si interessa alla produzione della
terra; il salario è il solo suo cespite per quei giorni
lavorativi che il nostro clima consente. Chi ricorda le
inchieste agrarie, i salari di fame, i patti angarici,
giustifica l’emigrazione. Sarebbe un torto attribuire
tutta la colpa al crudele padrone o al signore
assenteista o al gabellotto strozzino, di che è piena la
letteratura del problema; molte delle cause del male
sono state tuttora naturali, economiche e politiche;
l’azione degli uomini, però, vi ha la sua parte; e
quando questi non hanno i freni sociali e morali, può
degenerare fino al sopruso, fino alla violenza.
Ma si sa che gli eccessi si scontano; e
il non aver voluto o potuto iniziare una soluzione
onesta e razionale del problema terriero, ha dato luogo
prima all’abbandono da parte del proprietario
assenteista, che ha aggravato i latifondi di ipoteche;
poi all’abbandono operaio per l’emigrazione; infine
(dopo il ritorno di molti emigranti per la guerra e la
difficoltà di una nuova emigrazione) ai tentativi legali
ed illegali di occupazione e di esproprio, alla
pressione economica dell’acquisto da parte di società di
contadini, anche al disopra del prezzo normale. Tutto un
periodo caotico, che prepara altri danni: quando,
diminuite le asprezze del cambio che formano oggi
barriera doganale, il prezzo del grano scenderà ancora,
e la crisi agraria sarà acuita per le difficoltà della
normalizzazione del mercato e l’incapacità di acquisto
delle nazioni vinte. Ebbene, sarebbe da folli non vedere
che questo problema del latifondo è nella fase dinamica,
e deve avere un suo ciclo razionale.
I tentativi legislativi sono stati
criticati, perché meccanizzavano la soluzione del
problema e non davano i mezzi sufficienti alla
soluzione. Non vengo qui a discutere la parte tecnica;
sarebbe fuori tema. Solo dico che l’iniziativa statale
creava tre vantaggi: primo, quello del concorso
governativo alla spesa della bonifica agraria (case,
corsi d’acqua, strade), che sono necessario inizio
all’avviamento risolutivo dell’immane problema; secondo,
quello del credito agrario per l’acquisto dei terreni,
atti a cultura intensiva e a formare la proprietà
familiare; terzo, quello della riforma dell’enfiteusi e
della creazione dell’istituto di riscatto. Oggi la
reazione agraria spazza di un colpo questo buon inizio,
per la paura che i proprietari nutrivano dell’esproprio
coattivo: forma già in azione con l’opera dei
combattenti, che non ha perciò turbato il nostro regime
di proprietà e la nostra agricoltura.
I meridionali non hanno compreso che
dovevano imitare i bonificatori romagnoli, emiliani e
veneti; questi – non preoccupandosi molto di certe
questioni giuridiche sul regime di proprietà – si fecero
aiutare dallo stato in tutti i modi per redimere i
terreni dalla palude, renderli atti alla grande cultura,
farne centri di abitati floridi e di colonie numerose.
L’obbligatorietà del consorzio, la possibilità di
esproprio, l’alea della spesa, che cosa sono di fronte
al vantaggio capitalistico della grande industria
agricola della bonifica? Non così i nostri misoneisti;
invece di discutere, negarono; e lo stato risparmia i
denari che avrebbe dovuto spendere nel sud. Se la crisi
agraria verrà a battere alle nostre porte, avremo
popolazioni turbolente, alle quali non si potrà dare il
piombo invece del pane; oppure popolazioni che di nuovo
si avviano all’estero, quantunque dure siano le sorti
dell’emigrazione disorganizzata. Il problema del
latifondo è immanente, è di carattere economico e
sociale, ha riflessi politici; e l’attuale ministero non
può ignorarlo, o riporlo nel dimenticatoio con una
frase, come ha creduto di fare l’on. De Capitani.
La soluzione del problema agrario deve
contribuire a formare quel ceto medio economico, che è
molto limitato nel Mezzogiorno, e che è uno dei nessi
connettivi più saldi della società; e che – per il fatto
di non essere né troppo piccolo né abbastanza ricco –
sente meglio la spinta al lavoro, alle imprese, ai
guadagni, e quindi è una forza dinamica di prim’ordine,
molto maggiore di quelli che possiedono troppo, che sono
lontani dal tumulto della vita che lavora, privi della
ebrezza che dà il contatto con la natura, che si
trasforma e si rinnova nelle sue forze produttive.
Un secolo di sforzi, dopo l’abolizione
della feudalità, dopo la quotizzazione dei demani
comunali, dopo la vendita del patrimonio ecclesiastico,
con tutti gli errori commessi, è valso a formare una
prima zona intermedia fra il semplice lavoratore
salariato e il latifondista; ed è erroneo dire che non
esista il ceto medio dell’agricoltura meridionale.
Certo, in nessun posto, meno nelle zone litoranee (che
fan così bella cortina alle asprezze dell’interno), il
successo del ceto medio è alla pari di quello del
Piemonte o della Liguria. Ma bisogna aggiungere che né
la politica generale né la cultura scolastica, né
l’avviamento professionale hanno contribuito assai a
questa radicale trasformazione, che è tanto più
difficile nel Mezzogiorno, quanto minore è il capitale
circolante e quanto più avverse solo le condizioni della
natura, che non possono essere vinte senza grande
sforzo. Però questo sforzo è, e deve essere, veramente
nostro: poggiato su basi tecniche, solide, di attività e
di intelletto. Dico «intelletto», perché la nostra
cultura scientifica e ideologica, deve mirare, nella sua
generalità, a formare una base realistica ai nostri
problemi economici, tecnici e politici; perché le idee
sono la prima forza, sono quelle che determinano la
volontà, che creano le energie, che formano la grande
sintesi dell’attività umana.
La visione del nostro essere, delle
nostre deficienze, dei bisogni, degli interessi, delle
forze insite al nostro organismo, deve essere fatta da
noi, ed essere completa. Così soltanto il Mezzogiorno
sarà rivalutato con le altre regioni d’Italia, non come
un ingombro pesante per la prosperità nazionale, ma come
pari nelle responsabilità e nell’attività al resto della
patria nostra.
(…)
I
partiti
I partiti politici di ieri erano
localistici, campanilistici, personali, frazionati; il
contatto limitato fra le province meridionali isolava la
vita cittadina; Napoli, Palermo, Bari, Cagliari non
erano metropoli, perché anch’esse lontane dal ritmo
economico, con partiti localizzati, tormentati da
problemi finanziari, assillati dalla mafia e dalla
camorra, di che si giovarono alternativamente i partiti
locali e il governo centrale.
Oggi basta: i partiti nazionali debbono
far sentire che la cerchia della vita politica è estesa
dall’un campo all’altro d’Italia, che la solidarietà,
invocata da Giustino Fortunato, non è un semplice ed
assurdo altruismo di due popolazioni che abbiano
interessi, mentalità, costumi diversi, ma una
convergenza di politica e di economia, in uno sforzo
restauratore della nostra vita nazionale.
Per questo noi neghiamo il diritto a
ministri e a uomini politici di venire a scoprire le
nostre regioni, a compatire le nostre miserie;
domandiamo ai partiti e al governo di conoscere fin dove
la politica nazionale trova la suo convergenza nello
sviluppo degli interessi locali.
Per noi popolari il problema è sintetico;
comincia col risanamento della nostra vita pubblica da
ogni forma di parassitismo locale e di oppressione
governativa, che crea l’abbiezione del pulcinellismo e
del girellismo, lo sfruttamento delle basse voglie di
partito, attenuando le attitudini a comprendere e a
vivere la politica del paese. Noi vogliamo cooperare a
far vivere il Mezzogiorno con la sua vita e la sua
figura, non avulso dal ritmo della economia e della
politica nazionale, ma come parte integrante dell’Italia
una: una di spirito, di volontà, di interessi, di fede,
di vita e di avvenire. Sprezza e calpesta il
Mezzogiorno, chi ne sfrutta gli istinti e ne mantiene
l’asservimento politico. Noi popolari, pochi, modesti,
sinceri, diciamo una parola di verità e di amore al
Mezzogiorno: tutti i popolari, non solo i meridionali,
tutti i fratelli di ogni parte d’Italia, che stasera
sono qui presenti in ispirito nel nome del nostro
programma e della nostra idea.
Agli altri partiti non neghiamo il merito
di avere agitato da tanti anni la questione meridionale,
benché nello stesso tempo non abbiamo contribuito a
formare una salda coscienza collettiva, per
l’intristimento doloroso delle coalizioni e delle
clientele. Ma noi popolari, arrivati da pochi anni nella
vita politica, abbiamo avuto il merito della nuova
impostazione, che oggi, in questo giorno che ricorda la
nostra costituzione di partito, riaffermiamo, quale
corollario degli sforzi fatti – alla camera e fuori, al
sud e al nord – per destare fra noi e presso gli altri
una vera coscienza della questione meridionale, in
quanto problema nazionale e unitario.
Il socialismo meridionale non ha mai
impostato il problema nel suo complesso; ha rilevato le
condizioni sociali così depresse e il triste fenomeno
del bracciantato agricolo o della disoccupazione urbana,
e li ha sfruttati a fini politici. Per esso colonie,
Mediterraneo, tariffe doganali non sono che strumenti
borghesi: le popolazioni povere e i lavoratori stanchi
di lotte e di speranze sono andati o vanno al
socialismo, per un gesto di protesta o come per
un’ultima speranza.
Il massonismo anticlericale delle nostre
provincie ha allontanato le classi urbane e
professioniste dalla fede e dalla pratica cristiana,
prima in nome della nazione, poi in nome della scienza,
ed ha rotto così i rapporti morali fra le classi alte e
il popolo. Occorre che quel che il Partito popolare
italiano fa nel campo politico, facciano gli
organizzatori nel campo sociale e dell’azione cattolica,
specialmente giovanile e femminile, per rinsaldare i
vincoli sociali fra le varie classi in nome delle virtù
cristiane, perché nostro male profondo è l’abisso che
spesso separa le classi sociali, che si ignorano e si
odiano, mentre la politica speso unisce coloro che
sfruttano il popolo e se ne fanno sgabello.
I
fascisti
Oggi, fascisti e nazionalisti si dividono
l’entusiasmo e l’arrivismo meridionale. Non discutono la
conversione di molti democratici e liberali di ieri, né
dei socialisti, passati al fascismo e al nazionalismo;
ma debbo onestamente auspicare che si sollevino dalla
visione di interessi localistici e di preminenze
personali, ad una visione più vasta della questione
meridionale e della sua dinamica. Se una parola può
venire da me al mio amato Mezzogiorno, alla mia Sicilia,
lontana ma sempre presente al mio cuore, è che cessino i
conflitti locali, che siano superate le competizioni di
parte, che a tutte le energie si dia il diritto di vita
e di lavoro. Non si aggiunga al vecchio tormento quello
nuovo delle violenze, sicché la vita cittadina divenga
intollerabile nella risurrezione di dominii
proconsoleschi o di sopiti desideri di feudi politici.
La vecchia democrazia personalista è
forte nel Mezzogiorno: sta in agguato, aspetta, si
insinua nelle pieghe dei nuovi partiti, vive del suo
bagaglio, del vecchio idealismo retorico, del
procacciantismo parlamentare, dell’anticlericalismo
locale. Essa non ha saputo elevarsi a forza motrice
della vita del Mezzogiorno, perché la superato
l’affarismo provinciale e non è mai divenuta un vero
partito nazionale.
Il fascismo, come metodo, dovrebbe valere
ad abbattere le vecchie costituzioni e impalcature che
danneggiano e inquinano la nostra vita. Sarà da tanto? O
non ripeterà l’errore di fare del Mezzogiorno il campo
di speculazione politica e di clientele? non perderà qui
la sua fisionomia, asservendosi alle consorterie? la
gioventù nuova saprà superare le insidie delle volpi
politiche e la tentazione di credersi dominatrice, senza
esserlo? Il pericolo maggiore però sta altrove, non è
una presa di possesso alla garibaldina, che muta il
Mezzogiorno e lo fa rivivere; ma nessuno di noi si
augura che, dietro al fascismo al potere, forte della
sua gioventù, debole della sua inesperienza, si annidino
la speculazione dell’alta banca, l’internazionalismo
ebraico, la siderurgia del nord, e si ripeta per
l’avvenire lo sfruttamento del passato. Sta al
Mezzogiorno – cioè a tutte le forze politiche
meridionali, nella solidarietà difficile, ma doverosa,
della nostra terra e del nostro popolo – che la
questione meridionale venga conosciuta, sentita,
valutata e che si superino i vecchi e i nuovi ostacoli a
risolverla.
La redenzione comincia da noi. Questo è
canone fondamentale che noi popolari del Mezzogiorno
proclamiamo, come un inizio di forza e di vitalità che
deve conquistarci il dovuto posto nella vita italiana;
la redenzione comincia da noi! La nostra parola è
questa: il Mezzogiorno salvi il Mezzogiorno! Così il
resto dell’Italia riconoscerà che il nostro è problema
nazionale e unitario, basato sostanzialmente sulla
chiara visione di una politica italiana mediterranea e
di una valorizzazione delle nostre forze.
Questa visione non deve essere monopolio
di partito, ma coscienza politica della nostra gente,
che seppe i dolori e le lacrime di ieri, che visse le
più splendide civiltà, che dovette piegare allo
straniero, ma rimase, nell’animo, latina, cristiana,
meridionale: come il retaggio di tre civiltà in una,
nella esuberanza di sentimenti e di idealismi, che
splendono in Napoli bella e in Palermo ferace: come la
visione di uno perpetuo sogno, come l’immagine di un
futuro sperato e voluto, come il segno precursore del
nostro risorgimento.
A questo risorgimento del Mezzogiorno noi
– popolari meridionali – vogliamo cooperare, come ad una
nuova forza sorgente per la saldezza e grandezza della
patria italiana, che riaffermi, nel futuro domani, i
vecchi e i nuovi diritti nel Mediterraneo.
[1] Discorso
tenuto a Napoli nella Galleria Principe il 18 gennaio
1923, quarto anniversario della fondazione del Partito
popolare italiano.