Ad Adulis il “campo” è una
circonferenza appena accennata, quasi un’idea , delimitata
da qualche tenda, da malandati cassoni di compensato, una
vecchia cisterna arrugginita e cabine di doccia, senz’acqua,
di un blu assurdamente intenso. Intorno, un antico argine di
fango e dune ed avvallamenti e acacie stentate. Ad Adulis il
campo è niente, immerso nel nulla apparente che lo circonda
e da esso , solo se guardi a sud, scorgi lontano ed irreale
il minareto di Zula, oltre le dune e i rari cespugli. La
sveglia è dettata dalla luce che precede di poco il sole,
che sale rapido, inondando d’oro ogni cosa. Ed è lo stesso
ritmo del sole che ci ordina di fermarci nel breve tramonto
che precede la notte, incredibilmente ricca di stelle. Un
ritmo immutato nel tempo, da un’età assai più antica
dell’uomo, lo stesso che segnava la vita, il lavoro, le
passioni, il dolore e la gioia, nei secoli in cui Adulis era
viva e ridondante di colori e rumori, di donne e di uomini e
bambini, tra strade polverose, vicoli e chiese, mercati e
mercanti, stranieri d’Oriente o soldati di Axum, amori e
tradimenti. Ma oggi in quei sentieri appena tracciati, di
polvere e sabbia, che contornano basse dune, poche decine di
centimetri, sormontate da uno spinoso cespuglio, di un verde
assurdo e polveroso, e che disegnano un complicato
labirinto, in cui perdersi è prassi, sono altre le voci che
si possono ascoltare. Ed è di queste che voglio raccontare.
Al campo di Adulis sono arrivato
quasi al tramonto, dopo un viaggio più lungo del previsto,
punteggiato da tappe ed accompagnato, scendendo da Asmara,
dal grande altipiano orientale, da una pioggerella sottile
ed inattesa e da banchi di nebbia, umida e fredda, certo un
clima inconsueto a quelle latitudini. Con me, nel
fuoristrada, i miei compagni di viaggio ed avventura, Omar,
magro come un chiodo, trentino e quindi a suo agio tra i
ripidi pendii che la macchina percorre velocemente, troppo
pensiamo tutti. Ciuffo ribelle , tatuaggi diffusi,
dinoccolato e, a meno di trent’anni, innamorato di un
lavoro, tra antichi manufatti ed ossa e ceneri di uomini
scomparsi da migliaia di anni, Matteo e Bojana, archeologi
dell’Istituto Pontificio, da lì a poco ribattezzati i
“pontifici of Rome” per tutti. Matteo è un altro montanaro,
come, anzi più di Omar, un valtellinese entusiasta e
gentile, con una folta barba che non riesce a farlo sembrare
più vecchio. I suoi trent’anni brillano nei suoi occhi buoni
ed attenti; al suo fianco Bojana, croata, bruna ed elegante,
una caratteristica che la accompagna, lo scoprirò presto ,
in ogni momento del giorno. L’ultima tappa della strada è il
villaggio di Foro. Polvere, asini, capre, negozietti di
frutta, cammelli, un emporio dove puoi comprare riso,
chiodi, sigarette, lenticchie e mille altre povere cose. Ed
ancora un ritrovo ad un bivio, uno slargo dove fermarsi e
bere un caffè, nel fumo prodotto da un antico forno dove si
prepara l’ingera e dove, almeno credo, finisce ogni tanto
una capra. Da Foro la strada è una pista sterrata che
serpeggia tra le acacie, e tra esse, se sei fortunato, puoi
scorgere, fugace visione, uno struzzo assai più a suo agio
rispetto al nostro fuoristrada. Poi dopo qualche chilometro
il campo.
Ci accolgono con affetto sincero,
Serena, il Direttore degli scavi, una bella milanese a suo
agio nella polvere di quel posto sperduto, come lo sarebbe
tra i salotti buoni della sua città : classe innata insomma.
Con lei, Paolo, archeologo esperto , zazzera e barba da rock
star e, anche questo scoprirò presto, esperto conoscitore,
innamorato, di quella musica ai cui interpreti tanto
assomiglia e Chiara riccioli biondi, occhi che brillano,
sguardo buono e rassicurante, dolce e bella con i suoi
frammenti di ceramica, puzzle impossibile, lungo chilometri
e secoli. Il giorno dopo ci raggiungerà un altro Paolo,
assai più giovane, un architetto incaricato della
topografia, barba nerissima ed entusiasmo da vendere, buono
come il pane e sensibile come pochi. Nonostante i suoi
venticinque scrupoloso e professionale, come non ti aspetti.
Saranno loro i miei compagni di viaggio, lungo una settimana
priva di comodità solo apparentemente indispensabili, ricca
di docce fatte con un secchio, di buio assoluto come non
siamo più abituati a vedere, di acacie stentate utilizzate
come momentanei sipari per funzioni che potete immaginare,
di cibo scarso e non certo particolarmente appetitoso. Una
settimana di polvere e caldo, di capre sgozzate e di iene e
volpi di notti, di camminate all’alba e al tramonto tra dune
di sabbia e buche, ossa sbiancate e spine. Una settimana tra
voci all’imbrunire, tra risate ad una tavola assai parca, a
parlare di musica o, purtroppo per me inevitabile, di
malanni, di antiche chiese e frammenti di esse, di un mondo
scomparso, che tornava vivo, di storie delle vite che si
ritrovavano lì, in un lembo lontano d’Africa E’ stata una
famiglia di cui mi sono sentito da subito parte. Una
settimana scomoda e meravigliosa, magica, forse irripetibile
per me, forse.
Sei giorni con Serena e la sua
naturale autorevolezza, la sua competenza e la sua umanità,
Paolo sempre presente, scrupoloso organizzatore, attento e
vigile, competente e rassicurante, Chiara che spendeva gli
ultimi minuti di luce, nel breve crepuscolo, per lavare i
suoi frammenti di ceramica, con amore materno ed il sorriso
sul suo bel volto, Matteo, con gli occhi buoni, la maglietta
che ogni giorno diventava più scura e la barba che alla sera
assumeva lo stesso colore delle dune, Bojana, sua compagna
nella vita e nella stessa passione, sempre impeccabile ed
ordinata, bella dall’alba all’imbrunire, l’altro Paolo,
intelligente, ironico appassionato e competente, ed Omar, il
trentino con il quale ho lavorato a più stretto contatto,
una religiosa passione per ossa polverose che con infinita
pazienta sottraeva al fango secco di Adulis, strappando loro
i segreti di una vita che apparteneva ad un mondo ed un
tempo passati, ma non più perduti. Ma ancora più vivo è il
ricordo di giorni pieni di vita e di passione, di cultura e
risate, di salame e di vino furtivamente consumati nella
scarsa luce, dentro un container malandato, di voci e
silenzio. Il ricordo di voi amici sinceri, tra voi ero a
casa e pensando a voi mi sentirò sempre a casa. Ripenso
spesso ad ognuno e ai momenti vissuti, ma l’immagine più
viva è quella di voi che, nel breve tramonto, tornate al
campo, stanchi ed impolverati, mentre Adulis tornava a
vivere grazie ai suoi angeli. Angeli con la faccia sporca.