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Alika il Nigeriano
di Peppino Aloise
In un recente “fondino” dal titolo “Edipo Re ed Alika il
Nigeriano “, Franco Petramala, da par suo, formula sintetiche ma
efficaci riflessioni sul caso dell'uccisione di Alika.
Mi ha colpito in
particolare, il richiamo allo
straniero elemosinante “eppur sospetto come chiunque
chieda l’elemosina e senza la protezione antica del
sagrato di una Chiesa!”.
Questa
affermazione racchiude in sé una storia lunghissima sul
cosiddetto
privilegio del
foro e dell'asilo connesso all'immunità ecclesiastica che
nell'età carolingia acquista una formale definizione giuridica.
Per evitare
l'abuso di tali privilegi che impedivano che i “confugiati”
potessero venire estratti violentemente dai luoghi sui cui si
esercitava la competenza ecclesiastica, nel 1591 Gregorio XIV
con la Bolla Cum Alias
Nonnullis, escluse ufficialmente dall’immunità ecclesiastica
gli assaltatori di strada, i “publici latrones”, gli eretici, i
traditori o coloro che avevano commesso omicidi o mutilazioni.
Nel regno di
Spagna, tuttavia, la bolla non venne mai ufficialmente
pubblicata e quindi non venne mai applicata.
Il diritto di
asilo veniva accordato di fatto a tutti coloro che si fossero
trovati all'interno di un luogo sacro.
Il sagrato era
una pertinenza del luogo sacro e quindi l'elemosinante sospetto
straniero non poteva essere “estratto” perché godeva di un
diritto particolare, il diritto di asilo appunto, che era un
diritto “ratione loci” e non già “intuitu
personae”.
Bisogna
aspettare l'approvazione delle “Leggi Siccardi “nel 1850 nel
Regno Sabaudo per porre fine ad alcuni privilegi tradizionali
della Chiesa, che erano incompatibili con l'uguaglianza di tutti
i cittadini davanti alla Legge, sancita dall'art 24 dello
Statuto Albertino.
Cosi fu
soppresso il privilegio del “foro” ecclesiastico in base al
quale i membri della Chiesa non potevano essere giudicati dalla
giurisdizione laica e venne abolito il diritto di asilo che
aveva garantito impunità a chiunque avesse commesso un delitto
se andava a rifugiarsi in una chiesa o in un monastero.
Ed ancora, le
riflessioni di Franco Petramala, quanto all'elemosina,
sollecitano alcune considerazioni di tipo religioso.
Sotto questo
profilo occorre preliminarmente sottolineare che nella Bibbia,
come ci ricorda Papa Francesco, troviamo la parola greca
eleemosyne, da eleos, che vuol dire compassione
e misericordia. Ed ancora Papa Francesco non manca di
ricordarci che “Ci sono pagine importanti nell’Antico
Testamento, dove Dio esige un’attenzione particolare per i
poveri che, di volta in volta, sono i nullatenenti, gli
stranieri, gli orfani e le vedove. E nella Bibbia questo è
un ritornello continuo: il bisognoso, la vedova, lo straniero,
l’orfano…»
Nell'Islam l'elemosina assurge a precetto coranico ed ha una
funzione significativa. Ed infatti, con il termine Zakat , che
significa letteralmente “purificazione”, si intende “ l'obbligo
religioso prescritto dal Corano di purificazione della propria
ricchezza”.
L'elemosina rituale è un tributo che il fedele musulmano è
chiamato a versare alla comunità in rapporto alla propria
ricchezza. Un vero credente non può sottrarsi a questo obbligo
che è esplicitato dalla Sunna del Profeta. Chi rifiuta
l'elemosina, la carità, il tributo rifiuta la fede. La Zakat è
uno dei cinque pilastri dell'Islam accanto al digiuno del mese
del Ramadan, al Pellegrinaggio alla Mecca, alle preghiere
quotidiane e alla Professione di Fede, alla “Testimonianza”.
Ma non sono inopportune, proprio per gli stimoli che suscitano i
messaggi del fondino; ulteriori considerazioni
sulle forme
assistenziali del passato, in particolare nel Regno di Napoli,
che presentano tratti di grande attualità nel momento in cui si
discute di reddito di cittadinanza e lotta alla povertà. Anche
perché l’amico Franco evoca per l'elemosinante “il sostegno
della stampella”.
Quando Carlo III
di Borbone diede l'avvio alla costruzione del Real Albergo dei
Poveri, una delle più grandi costruzioni del settecento in
Europa, si pensò ad un progetto di “razionalità caritativa” che
consisteva in un processo di educazione e formazione al lavoro
dei poveri.
Giuseppe Maria
Galanti, volendo esaltare a fine settecento il progetto del Real
Albergo dei Poveri cosi si espresse: “le
belle case per li poveri sono quelle, in cui si lavora; ove
imparano un mestiere, la religione e la buona morale; ove si
provvede coll’educazione de’ fanciulli a formare buoni cittadini”.
La lotta alla povertà per Galanti doveva caratterizzarsi con un
piano di interventi che andassero oltre l'assistenza dovendo far
ricorso all'educazione, alla formazione professionale e
soprattutto al lavoro.
Nella prima metà del cinquecento a Napoli con la prima prammatica
De Vagabundis
seu erronibus si introdusse la condanna, con la carcerazione, degli
oziosi e l'espulsione dei vagabondi forestieri...
Nel 1751 Carlo di Borbone ripubblicò ed aggiornò la Prammatica con
la quale si condannavano “i falsi mendicanti in abito da
pellegrino, gli oziosi, i vagabondi, i forestieri che per
la vaghezza e fertilità del sito e l'abbondanza dei viveri sono
allettati a concorrervi e farci dimora”. Le migrazioni
del 2000 verso le terre ove abbonda il cibo non sono una novità.
La Napoli del settecento, la seconda metropoli dell'Europa dopo
Parigi, aveva una notevole forza attrattiva per mendicanti e
lazzari.
Ma Carlo di Borbone capì che non bastava condannare “vagabundi,
erroni, birboni, ganeoni, nebuloni, cingani e mendicanti” e che
il fenomeno non poteva ridursi a mero problema di polizia e di
repressione.
Carlo III era impressionato dalla miseria che si coglieva per le
strade di Napoli dove gli elemosinanti erano lasciati alla
carità dei passanti e sentiva anche il bisogno di rendere meno
sgradevole il paesaggio cittadino allontanando dalla strada una
presenza umana che appannava l'immagine di una città che doveva
gareggiare con le altre capitali europee.
Di qui l'idea della costruzione di un grande edificio: con il
Decreto del 25 febbraio 1751 Carlo di Borbone affermava che
“abbiamo deliberato di
erigere l'Albergo dei poveri di ogni sesso ed età e di quivi
introdurre le proprie e necessarie arti, affinché tal opera
riesca grata agli occhi di Dio e di beneficio a questa Città e
Regno...”.
La condizione per l'ammissione era una sola: la povertà. Ma secondo
la cultura più avveduta del tempo gli oziosi non solo
diventavano inutili ma erano anche un pericolo per la sicurezza
pubblica e di qui la necessità di apprendere le arti e di
incentivare la formazione professionale.
Per gli inabili alla fatica, ovvero per quelli che si reggevano
sulla stampella come Alika, il Sovrano garantiva la sua
personale e “commossa pietà”.
Le calamità naturali, le carestie, le guerre, la Rivoluzione del
1799, la conquista dei Francesi e la crisi finanziaria del Regno
ritardarono la costruzione dell'edificio ed il concreto avvio
dei programmi di lotta alla povertà.
Ad un edificio che venne immaginato da Carlo III come luogo di
“sublimazione morale” non poteva non corrispondere una sorta di
“Estetica della Povertà”. Il Progetto dell'Architetto fiorentino
Ferdinando Fuga, realizzato solo in parte, in corso di
ristrutturazione, testimonia uno sforzo anche culturale di lotta
alla povertà.
Le recenti polemiche sul reddito di cittadinanza ripropongono
intatte le tematiche del ‘700 napoletano!