1. Il sociologo tedesco
Ulrich Beck, molto
efficacemente, ha definito la società che contraddistingue
il nostro tempo come “società del rischio”. Si tratta di una
definizione che trova adeguata chiarificazione nella sua
indissolubile correlazione con la crisi ecologica in quanto
la società del rischio non è che il riverbero della crisi
ecologica sul sociale con tutto ciò che ne consegue sul
piano delle scelte pubbliche. La società del rischio inizia,
infatti, proprio laddove finisce la natura; inizia, in altri
termini, proprio nel momento in cui viene meno la
distinzione tra natura e artificio, come la filosofia della
crisi ecologica ha ampiamente dimostrato[1].
Il venir meno della distinzione tra natura ed artificio
segna il punto di svolta perchè “è in quel momento che
passiamo dalle angosce rispetto a quello che la natura può
farci alle angosce rispetto a quello che noi abbiamo fatto
alla natura […] La società del rischio incomincia laddove
finisce la tradizione, vale a dire nel momento in cui, in
tutte le sfere della vita, non possiamo più dare per
acquisite le certezze tradizionali. Minori sono i
riferimenti che possiamo fare alle sicurezze tradizionali e
maggiore è il numero dei rischi cui dobbiamo far fronte”[2]. La vicenda
della mucca pazza non è solo che uno dei tanti esempi della
società del rischio, della presa d’atto che “la più semplice
delle decisioni – mangiare o non mangiare manzo – può
diventare una questione di vita o di morte”[3], a
dimostrazione di come l’uomo abbia trasformato la natura,
facendo in questo caso di un animale erbivoro un
carnivoro-cannibale, non rispettando l’ordine dell’essere e
non riconoscendo alla natura la sua identità[4].
Anche Bauman ha ampiamente descritto gli orientamenti di
fondo che sono alla base della condizione di incertezza che
caratterizza il nostro tempo e la vita degli uomini, e che
ha come immediata conseguenza il problema complesso della
gestione della paura: il passaggio da una fase ‘solida’ ad
una ‘liquida’ della modernità nella quale le forme sociali
non riescono “a conservarea lungo la loro forma, perché si scompongono e si
sciolgono più in fretta del tempo necessario a fargliene
assumere una, e una volta assunta, a prendere il posto
assegnato loro”; la separazione nello spazio globale tra
potere e politica che porta “gli organi dello Stato ad
abbandonare, a trasferire altrove, o … ad applicare i
principi di ‘sussidiarietà’ ed ‘esternalizzazione’,
delegando ad altri sogetti un volume crescente di funzioni
da loro assicurate in precedenza”[5].
Alla determinazione del carattere del rischio-insicurezza
come momento significativo delle odierne società
contribuisce inoltre la nuova accezione di scienza che si è
andata progressivamente affermando. La scienza contemporanea
si presenta, portando a compimento tratti già presenti nella
scienza moderna, con una grande novità rappresentata dalla
perdita del suo carattere indipendente e neutrale, superando
in tal modo la concezione della autonomia della ricerca dal
contesto sociale. Tale carattere innovativo dipende
essenzialmente dal fatto che la scienza si presenta
indissolubilmente legata alla tecnica nel senso che viene
meno la separazione tra ricerca sui fondamenti e
applicazione tecnologica dei risultati: “il passaggio da
ricerca ad applicazione si compie in modo estremamente
rapido, anzi, in certi casi la ricerca è già essa stessa
applicazione, e dunque l’analisi non può essere
assiologicamente neutrale”[6].
Ha colto bene questo carattere Pessina quando ha
scritto che, a partire dall’epoca moderna, la tecnica,
acquisendo via via l’attributo della autoreferenzialità,
mira ad escludere ogni dualità tra fatti e valori, tra
scienza e morale rappresentando l’orizzonte globale entro
cui rispondere anche a quelle domande che appartengono alla
dimensione della soggettività. Ecco perché, nella
prospettiva della modernità, “lo strumento non è più il
mezzo per un’operazione pratica che soddisfa mere esigenze
vitali (come l’arco o il fucile per uccidere la preda), ma
diventa il mediatore tra l’uomo e la realtà, la condizione
di possibilità per una comprensione dell’esperienza che
prima non si dava e che si manifesta soltanto quando è
letta, integrata e interrogata attraverso lo strumento (che
diventa, appunto, ‘scientifico’)”[7].
Con la scienza contemporanea si passa, dunque, “da una
visione acritica del sapere scientifico, assunto come
oggettivo e scevro da incertezze, a una posizione
consapevole della non neutralità delle soluzioni
tecnologiche, allorché le stesse entrano a contatto con
attività sulla produzione, che possano incidere sulla
sicurezza, sulla tutela dell’ambiente, sugli esseri viventi,
sull’uomo”[8].
Se è così, è evidente che la rivoluzione tecno-scientifica
impone, in primo luogo, la necessità di ripensare il
problema del rapporto tra diritto e scienza partendo dalla
constatazione che la netta differenziazione tra saperi
descrittivi e saperi prescrittivi va oggi, quantomeno,
riconsiderata. Si sta accelerando, anche per effetto
dell’emergere della questione ecologica, il superamento
della visione di una scienza considerata positivisticamente
come un sapere certo e neutrale e di un diritto che si
limita a registrarne le asserzioni attraverso la mediazione
delle cd. norme tecniche (grazie alle quali il diritto
assume il compito, appunto, di rivestire di giuridicità
contenuti tecnici e scientifici che esulavano dalla sua
competenza)[9]. Più in
generale si tratta di “rivedere la concezione dello Stato di
diritto, ormai divenuto Stato di scienza o Stato epistemico,
ispirandolo ad una visione più aggiornata e realistica delle
nostre concezioni della scienza e del diritto”[10].
Proprio la materia ambientale, e il diritto dell’ambiente in
particolare[11], fanno
emergere anzi una vera e propria integrazione e
complementarietà dei due saperi per cui il diritto
acquisisce una serie di nozioni scientifiche e la scienza
viene regolata da criteri giuridici. Integrazione resa
necessaria da un altro elemento, quello della ‘incertezza’,
che caratterizza la scienza dei nostri giorni. Non a caso
c’è chi a questo proposito parla di scienza post-normale[12].
Si tratta di una nozione di incertezza, infatti,
estremamente complessa perché determinata da fattori sia
oggettivi che soggettivi: “dal punto di vista oggettivo, la
crescita di complessità, l’imprevedibilità dei corsi di
azione, l’impredittibilità dei fenomeni ecosistemici fa sì
che il diritto si trovi spesso a scegliere tra proposizioni
scientifiche divergenti o indeterminate; dal punto di vista
soggettivo, la consapevolezza circa la non neutralità della
scienza e dei suoi operatori impegna il diritto in una
scelta tra valori (scientifici e sociali) differenti”[13].
Espressioni come “diritto dell’incertezza”[14] o “diritto
della scienza incerta” stanno a significare, in questa
prospettiva, che “il diritto deve ammantare della propria
supposta certezza l’irresolutezza della scienza”[15], diventando
il luogo in cui avviene la composizione oggettiva tra saperi
diversi. Diritto e scienza si completano e si integrano nel
senso che la scienza richiede di essere modulata dal diritto
nel momento in cui essa si dispiega nella società; il
diritto deve appropriarsi dei contenuti e delle elaborazioni
della scienza, movendosi a volte tra giudizi scientifici
divergenti se non contrastanti. Si pensi a quando, per
esempio, il diritto è chiamato a fissare standard relativi
alla sicurezza dei prodotti, alle procedure, alle
tecnologie.
Lo stesso discorso, naturalmente, potrebbe farsi per la
politica. Anch’essa, certo in modi diversi dal giuridico,
risulta modificata nel suo statuto epistemologico dalle
mutate caratteristiche della scienza. Lo aveva già notato
Hannah Arendt quando scrisse che “la questione consiste solo
nel vedere se vogliamo servirci delle nostre nuove
conoscenze scientifiche e tecniche in questa direzione, ed è
una questione che non può essere decisa con i mezzi della
scienza; è una questione politica di prim’ordine, e perciò
non può essere lasciata alla decisione degli scienziati di
professionee
neppure a quella dei politici di professione […] la
situazione creata dalla scienza assume una grande portata
politica. Ogni volta che è in gioco il linguaggio, la
situazione diviene politica, perché è il linguaggio cha fa
dell’uomo un essere politico”[16].
2. Le nuove coniugazioni del rapporto politica e
scienza incidono, non solo sul ruolo del politico di fronte
alla società tecnologica[17], ma
soprattutto sul momento essenziale della vita delle odierne
democrazie: il momento della partecipazione alle decisioni.
Il divenire incerto del futuro e della sopravvivenza umana
impongono, evidentemente, che di fronte alle decisioni più
complesse di una comunità, come quelle che devono valutare
la incidenza o meno di un rischio, siano prese coinvolgendo
nel modo più largo possibile l’opinione pubblica[18].
Si pone un problema che attiene alla partecipazione
democratica alle determinazioni delle scelte scientifiche
con il conseguente problema del riconoscimento di un diritto
di sapere in capo ai cittadini[19]. Lo stesso
Jonas ritiene che il sapere, non il sapere di pochi
maîtres
à penser,
ma un sapere accessibile a tutti, sia necessario per
garantire la moralità dell’azione, oltre al volere morale.
Si tratta di affrontare, in altri termini, il problema
complesso, perché giuridico e politico allo stesso tempo,
della governance della scienza, proprio a voler
evidenziare la molteplicità dei livelli e dei soggetti
concorrenti nella gestione del rischio e dell’incertezza
tecnologici.
Nel nostro tempo si va sempre più affermando l’idea che la
gestione del sapere scientifico e tecnico richieda una
condivisione democratica specialmente nel momento in cui le
applicazioni tecnologiche abbiano significative ricadute
sociali presentandosi come fonti di possibili rischi. Allo
stesso tempo si ritiene, ma le due questioni rappresentano
le due facce della stessa medaglia, che sia necessario
regolamentare in qualche modo la scienza. Se, finora,
l’apparato di garanzie predisposto dallo Stato di diritto
per limitare il potere (politico) non ha riguardato il
potere-sapere della scienza, occorre oggi un ripensamento
nella direzione, appunto, di una governance della
scienza per gli effetti che essa ha sui diritti fondamentali
dei cittadini.
I modelli di governance adottati sono essenzialmente
due: quello science-based e quello policy-related
science.
Nel primo, tipico degli Stati Uniti, il rapporto tra scienza
e diritto è certamente informato sull’utilizzazione di
criteri rigorosamente e oggettivamente scientifici, ma con
una grande trasparenza e apertura alla discussione pubblica
e con un ruolo sempre più centrale e decisivo assunto dai
giudici[20].
Il secondo, il modello europeo elaborato nel Libro Bianco
sulla Governance della Commissione Europea del 2001,
risente del clima di maggiore sfiducia che l’opinione
pubblica del vecchio continente nutre nei confronti della
scienza. È soprattutto per questo motivo che si parla di
scienza destinata a finalità pubbliche, di policy-related
science, distinta sia dalla scienza pura, guidata dalla
curiosità dello scienziato, sia dalla scienza applicata,
orientata prevalentemente da progetti di ricaduta pratica.
Si tratta di una scienza che ha il compito di definire
problematiche che necessitano di un connubio tra sapere
scientifico e scelte politiche e giuridiche[21].
L’interazione (o interconnessione) tra diritto e scienza,
sopra ricordata, emerge chiaramente in tre importanti
aspetti: “la definizione e traduzione giuridica di
proposizioni e concetti scientifici […]; [la] creazione
d’autorità, da parte del diritto, di nuove entità
scientifiche, la cui esistenza è pienamente attuata con
l’ausilio della giuridicità; la situazione in cui il diritto
si trova a scegliere tra proposizioni scientifiche incerte”[22].
Il primo aspetto riguarda l’assunzione e traduzione
giuridica di concetti e nozioni della scienza e si tratta di
un fenomeno molto conosciuto che si concretizza, per
esempio, con le linee guida che prescrivono determinate
norme tecniche. Il problema essenziale, in questo caso, è
legato alla rappresentazione dei concetti scientifici perché
“il diritto, pur nel perseguimento delle proprie finalità,
muove da una rappresentazione del mondo, ed è necessario che
tale rappresentazione sia una ‘valida immagine’ delle entità
da tradurre giuridicamente, nel senso che essa deve
corrispondere alle più attendibili conoscenze che di quella
realtà sono disponibili e pertinenti. Ma poiché spesso è
ancora il diritto che determina le condizioni di
accreditamento della scienza, tali criteri devono essere
chiariti e fondati da qualcosa di più del non ben definito
appello alla verità degli esperti”[23].
Il secondo aspetto, quello della creazione da parte del
diritto di nuove entità scientifiche, apre l’ampia, anche se
filosoficamente poco esplorata, problematica sulla
brevettabilità del biologico grazie alla quale il diritto,
appunto, determina statuto e legittimità esistenziale,
ascrivendole al mondo della natura o a quello artificiale, a
nuove entità. È indubbio che “la creazione tramite
ingegneria genetica di nuove specie biologiche ha reso
evanescente il confine superstite tra natura e non natura.
Manipolato a volontà il mondo fisico, la vita restava
l’ultimo feudo del naturale; ma anche questa barriera è
venuta meno e il ruolo causale del diritto non è stato in
ciò trascurabile. Tale contributo è riassunto dalla vicenda
dei brevetti, in cui la continua ridefinizione dell’idea di
invenzione rispetto all’idea di scoperta ha sorretto in
misura crescente la colonizzazione della materia vivente”[24].
Il terzo aspetto, quello forse ancora più
problematico per quanto attiene alla dimensione giuridica,
concerne “il carattere indeterminato di molte proposizioni
scientifiche su cui il diritto è chiamato ad intervenire.
Poiché la scienza, specialmente in campo ecologico, è un
sapere ad elevato grado di impredittibilità, da ciò nasce
una situazione di incertezza in cui il diritto svolge un
ruolo che mescola competenze scientifiche e normative”[25]. Di fronte
alle diversità delle tesi e delle previsioni scientifiche,
di fronte, come dicevamo, alla incertezza delle risposte
della scienza, soprattutto in campo ecologico ma non solo,
il diritto è chiamato ad assumersi la responsabilità di
risolvere in via normativa scegliendo tra le diverse opzioni
con tutto ciò che questa scelta comporta, in particolare per
quanto riguarda i criteri che esso utilizza per conferire
dignità ed efficacia normativa ad una tesi anziché ad
un’altra. La interconnessione problematica tra diritto e
scienza (e, come abbiamo visto, tra scienza e politica)
emerge con estrema chiarezza (come nel terzo aspetto in cui
si colloca la difficile interpretazione del principio di
precauzione) nel momento in cui elementi descrittivi ed
elementi valutativi si presentano sia nell’ambito
scientifico che in quello pratico.
4. Di fronte alla incertezza scientifica il diritto
interviene con criteri prudenziali con i quali si dà vita a
procedure di rappresentazione e valutazione preventiva delle
azioni: la valutazione di impatto ambientale e il principio
di precauzione. In presenza di un rischio e di un danno in
qualche modo quantificabili opera la valutazione di impatto
e di rischio ambientale[26].
Nel momento in cui, invece, il rischio non è noto (nei casi
di incertezza e ignoranza) interviene il principio di
precauzione[27].
Questo principio, non facilmente inquadrabile nelle
categorie filosofiche tradizionali quali la saggezza e la
prudenza, è diventato da qualche anno espressione di uso
corrente. È grazie a questo principio che “i governi
giustificano e legittimano (sul piano internazionale,
statale e locale) politiche e decisioni normative in materia
di sicurezza ambientale, sanitaria o alimentare, tanto che
la formula ‘principio di precauzione’ è divenuta essa stessa
sinonimo di sicurezza qualunque sia la forma, l’oggetto e
l’efficacia giuridica degli interventi posti in essere su
quella base. Tale dilatazione di significato favorisce ed
accompagna l’identificazione della logica precauzionale (o,
forse più correttamente, dell’antico concetto di prudenza)
con una nozione giuridica più recente, dai contorni
relativamente precisi e non ancora stabilizzati, generando
un certo grado di confusione circa la portata di
quest’ultima. La valutazione del rilievo giuridico del
principio di precauzione comporta, pertanto, la necessità di
distinguere tra la ‘precauzione’ e il ‘principio di
precauzione’ […] cioè, di tradurre in una serie di misure
giuridiche di tutela l’esigenza, diffusamente avvertita, di
mediazione tra i rischi e i benefici derivanti dal progresso
tecnico-scientifico”[28]. Il
passaggio dalla logica della prevenzione a quella della
precauzione si ha nel momento in cui si va la di là della
mera valutazione del danno e si integra il giudizio
scientifico con quello giuridico e politico per la tutela
dei cittadini che, a loro volta, devono essere coinvolti
nelle decisioni. Detto in altri termini, il passaggio dal
principio di prevenzione a quello di precauzione comporta
che i nei casi di incertezza scientifica la valutazione sia
affidata a criteri non solo scientifici.
Le difficoltà maggiori sorgono nel momento in cui si cerca
di dare un significato meno sfumato e dilatato al principio
di precauzione. Soprattutto si pone la questione di
intenderlo in modo corretto per evitare che esso possa
essere considerato principio antiscientifico e irrazionale.
È evidente, infatti, che nella sua letteralità il principio
ci farebbe ritornare all’età della pietra ponendosi in
definitiva come un serio rischio, un freno e un ostacolo
alla scienza e allo sviluppo economico soprattutto dei paesi
in via di sviluppo[29].
L’avvento delle biotecnologie, con la possibilità di creare
organismi animali e vegetali attraverso la tecnica del DNA
ricombinante e con la conseguente difficoltà cui va incontro
la scienza nel prevedere l’impatto ecosistemico di simili
organismi, ha rappresentato, e rappresenta, l’occasione per
una ulteriore e approfondita riflessione sul principio.
Come ha rilevato Bartolommei, l’appello al principio di
precauzione viene troppo spesso utilizzato come veto o
censura a qualsiasi iniziativa che ipotizzi usi delle
biotecnologie in campo agroalimentare dimenticando che il
principio di precauzione nasce come strumento
tecnico-procedurale cui far ricorso nei casi di incertezza,
inadeguatezza e insufficienza delle conoscenze scientifiche,
per eliminare o ridurre i rischi. In altri termini, c’è un
ricorso al principio di precauzione, “per cui esso scivola
impercettibilmente ma inesorabilmente dal valere come mezzo
(tecnico-empirico) o come regola procedurale per mostrare la
complessità e delicatezza di certi interventi in condizioni
di incertezza o di rischio al valere come principio morale
sostanziale con valore assoluto che mette in discussione, in
via pregiudiziale, la liceità stessa del ricorso alle nuove
biotecnologie agro-industriali e la produzione di cibi
attraverso modalitàdiverse da quelle convenzionali. In
alcuni casi sembra che anche solo invocare il principio di
precauzione costituisca una sorta di richiamo imperioso a un
dato di incontrovertibile evidenza – un dovere categorico
che costituirebbe, di per sé, giustificazione sufficiente al
divieto di proseguire in tale direzione”[30].
Indubbiamente il principio presenta una forte valenza
morale, nel momento in cui il comportamento imprudente un
tempo collocato negli indifferenti morali diventa condotta
certamente immorale; ma la su interpretazione non può
spingersi fino a concepirlo come un “principio
generale-astratto che comanda in ogni circostanza il rifiuto
pregiudiziale di ogni intervento”
[31].
Per evitare di incorrere, allora, in una lettura troppo
ingessata, irrazionale e antiscientifica, del principio è
opportuno collegarlo ad una doppia esigenza, “di validità ed
eticità della scienza e di scientificità della prudenza”[32].
Nel momento in cui ci si trova di fronte ad una incertezza
scientifica occorre integrare il sapere con valutazioni
etiche, sociali e politiche. Occorre, in altri termini,
rivedere non solo la nozione di scienza ma anche quella di
prudenza per evitare di rimanere impantanati, come Jonas e
tanta parte dell’ecologismo radicale, in quella euristica
della paura che, quando si concretizza in un atteggiamento
di ripiegamento e di difesa quasi superstiziali, “svaluta
indebitamente il ruolo della conoscenza nel momento in cui
essa si porge nell’ambigua forma del sapere incerto, come se
soltanto il sapere positivo e assertivo possedesse veri
connotati cognitivi, mentre l’ignoranza non potesse che
essere degradata a dominio della non argomentabilità, a
luogo in cui tutte le ipotesi si equivalgono”[33].
È il caso di ricordare che ‘principio di responsabilità’
alla Jonas e ‘principio di precauzione’ pur presentando
delle indubbie affinità, partendo soprattutto dalla medesima
premessa teoretica, divergono notevolmente sul piano delle
risposte pratiche.
L’etica della responsabilità è principio tipicamente morale;
il principio di precauzione, sviluppando le sue premesse
etiche e teoretiche, è uno strumento giuridico. Possiamo
dire che l’etica della responsabilità porta ad un concetto
forte di prudenza che può arrivare a proporre, eventualmente
mediante l’utilizzazione di strumenti di tipo autoritativo,
un astensionismo antiscientifico e antitecnologico, in vista
della esigenza primaria di conservazione della natura, anche
in assenza di rischi potenziali. Il principio di
precauzione, invece, rappresenta la versione debole della
prudenza limitandosi a proporre di differire o regolamentare
decisioni scientifiche che presentano rischi[34].
Il principio di precauzione, nel senso sopra precisato, e
cioè configurato come tentativo di fornire una risposta alla
doppia esigenza di validità e scientificità della prudenza,
“vuole indicare qualcosa di diverso, una posizione che non
asseconda le paure irrazionali, ma esige la partecipazione
di un pubblico consapevole e informato”. In altri termini,
“definire lo statuto epistemico dell’ignoranza significa
anche considerarla nel suo risvolto positivo e cognitivo: un
atteggiamento di attiva accortezza scientifica, unito alla
consapevolezza delle componenti valutative comunque presenti
nella scienza, e rafforzato dal carattere il più possibile
oggettivo dei valori che legittimano la prudenza”[35].
Appellarsi al principio di precauzione deve significare più
correttamente non un velleitario e anacronistico tentativo
di rallentare la conoscenza scientifica, bensì deve portare
all’auspicio che lo sviluppo della ricerca possa far
superare la situazione di difficoltà dovuta all’incertezza
in ordine all’applicazione tecnologica. Significa
incoraggiare, secondo un principio di tolleranza, lo
sviluppo di metodi in grado di eliminare, laddove possibile,
o ridurre le condizioni di rischio[36].
[1]
Cfr. M.
Sirimarco,
L’armonia perduta, Roma, 2006. Cfr. T.
Serra, L’uomo
programmato, Torino, 2003.
[2]
U. Beck,
Benvenuti nel mondo del rischio, in “Reset”, n. 62/2000, p. 57 e p.
58: “La nozione di società del rischio attribuisce
significato ad un mondo caratterizzato dalla perdita
di una chiara distinzione tra natura e cultura.
Quando oggi parliamo della natura parliamo anche
della cultura, e viceversa. Prendiamo, ad esempio,
il riscaldamento del pianeta, il buco nell’ozono, o
l’inquinamento delle derrate alimentari: in questi
casi la natura è palesemente contaminata
dall’attività umana. Questo comune pericolo produce
un effetto livellatore che attenua un certo numero
di quelle barriere che erano state in via
cautelativa erette tra le classi, le nazioni, gli
esseri umani e il resto della natura, tra i creatori
di cultura e creatori di istinto, oppure, per
riprendere una distinzione più antica, tra gli
esseri che hanno un’anima e coloro che non ne hanno.
I rischi sono degli ibridi prodotti dall’uomo. Essi
comprendono e mettono insieme la politica e l’etica,
le matematiche, i mass media, le tecnologie, i
precetti e le definizioni culturali. La società
moderna diventa riflessiva, nel senso che
costituisce al contempo una soluzione e un problema
per se stessa”. Dello stesso autore,
Che cos’è la globalizzazione, Roma, 1999;
I rischi della libertà, Bologna, 2000;
Europa Felix, Roma, 2000; Il
lavoro nell’epoca della fine del lavoro, Torino,
2000; La società del rischio, Roma, 2000;
Un mondo a rischio, Torino, 2003;Lo
sguardo cosmopolita, Roma, 2005. Su alcune delle
tesi di Beck, cfr.
La società
globale del rischio. Una discussione fra Ulrich Beck
e Danilo Zolo,
in
www.lgxserver.uniba.it/lei/filpol/zolobeck.htm, del
25/01/02. Cfr. anche L.
Vecchioli,
Il rischio
della sovranità globale, Torino, 2004.
[3]
U. Beck,
Benvenuti nel mondo del rischio, cit., p. 57. Cfr. J.
Rifkin,
Ecocidio. Ascesa e caduta della cultura della carne, Milano, 2001,
che ripercorre la storia del rapporto, inizialmente
mistico, fra uomo e bovino. Sulla vicenda della
mucca pazza e, in generale sugli allevamenti
intensivi, gli animali domestici e la zootecnia,
cfr. R.
Marchesini, Oltre il muro. La vera storia
della mucca pazza, Padova, 1996 e A.
Rivera
(a cura di), Homo sapiens e mucca pazza.
Antropologia del rapporto con il mondo animale,
Bari, 2000. V., inoltre, V.
Shiva,
Vacche sacre e mucche pazze. Il furto delle
riserve alimentari globali, Roma, 2001. Sul
rischio in materia ambientale, cfr. M.
Nocenzi, Vivere l’incertezza. Sociologia, politica e
cultura del rischio ambientale, Milano, 2002.
[4]
Cfr. D.
Coccopalmerio,
Fondazione metafisica e fondazione convenzionalistica dei diritti umani,
in P.
Benvenuti, F. Lattanzi, P. Gargiulo (a cura
di), Nazioni
Unite e diritti dell’uomo a trenta’anni
dall’adozione dei Patti, Università di Teramo,
1996, p. 5 e ss.
[5]
Z. Bauman,
Modus vivendi.
Inferno ed utopia del mondo liquido, Roma-Bari,
2007.
[6]
A. Kaufmann,
Riflessioni giuridiche e filosofiche su
biotecnologia e bioetica alla soglia del terzo
millennio, cit., 1988, p. 212, che ci ricorda,
altresì, come soprattutto nel campo delle
biotecnologie la scienza abbia una responsabilità
morale e politica verso la collettività.
[7]
A. Pessina,
Bioetica. L’uomo sperimentale, Milano, 2000,
pp. 47-48. Dal nesso scienza-tecnica, come tratto
distintivo del moderno, è partita Hannah Arendt
quando ha parlato del rovesciamento dell’ordine
gerarchico tra la
vita contemplativa e la vita activa, di allontanamento tra
scienza e filosofia, con la conseguente vittoria
(prima della sua disfatta) dell’homofaber. “Da allora – scrive la Arendt –
la verità scientifica e quella filosofica si sono
separate […] la svolta che si verificò nel XVII
secolo fu più radicale di quanto non dica un
semplice rovesciamento dell’ordine tradizionale
stabilito tra il contemplare e il fare. Il
rovesciamento […] riguardò solo la relazione tra
pensare e fare, mentre la contemplazione, nel senso
originale di guardare la verità, fu completamente
eliminata […] Il rovesciamento riguardò il pensiero,
che da allora fu subordinato all’azione come era
stato ancilla theologiae, subordinato alla
contemplazione della verità divina nella filosofia
medievale e della verità dell’essere nella filosofia
antica. La contemplazione stessa divenne del tutto
priva di significato” (Vita activa, cit., pp.
215-216). È a causa di questo rovesciamento che la
filosofia ha giocato in un ruolo defilato e
secondario: “dopo che Cartesio ebbe basato la
propria filosofia sulla scoperta di Galileo, la
filosofia sembrò condannata a stare sempre un
gradino al di sotto della scienza e delle sempre più
straordinarie scoperte scientifiche, di cui si è
strenuamente sforzata di scoprire
ex post
facto i principi e di inserirli in qualche
interpretazione generale della natura della
conoscenza umana […] I filosofi diventarono
epistemologi, indaffarati attorno ad una teoria
universale della scienza che non occorreva agli
scienziati, o, come li voleva Hegel, organi dello
Zeitgeist, i portavoce da cui gli umori generali
del tempo erano espressi con chiarezza concettuale.
In entrambi i casi, sia che si occupassero della
natura o della storia, essi cercarono di capire ciò
che si svolgeva senza di loro e di adeguarsi” (p.
218).
[8]Comitato
Nazionale di Bioetica, Il principio di
precauzione. Profili bioetica, filosofici e
giuridici, Roma, 2004, p. 20. Cfr., inoltre, M.
Mariani,
Storia della scienza moderna, Roma-Bari,
2002. Cfr. M.L.
Furiosi,
Libertà e responsabilità nella ricerca biomedica,
in M.L. Di
Pietro, E.
Sgreccia
(a cura di), Biotecnologie e futuro dell’uomo,
Milano, 2003, p. 27, secondo la quale “oggi non si
può più parlare di pura teoria e quindi della sua
essenziale innocenza. Risulta caduta definitivamente
la tesi della teoria pura e disinteressata poiché la
scienza è oggi posta al centro del regno dell’azione
sociale, dove chiunque agisce deve rispondere dei
suoi atti ed è ormai fin troppo chiaro che nessun
isolamento della teoria protegge più lo scienziato
dall’essere l’autore di conseguenze enormi e
imputabili. La scienza ormai appartiene alla sfera
pratica e non può più essere considerata neutrale
sul piano morale, ma come ogni azione umana implica
scelte valoriali, l’appello a precise responsabilità
ed è perciò stesso suscettibile di plauso e di
biasimo”. Cfr. S.
Cotta,
La sfida tecnologica, cit., diffusamente e T.
Serra,
L’uomo
programmato, cit., p. 99, per la quale la
scienza perde il suo carattere autoritario per la
sua stessa continua innovatività.
[9]
Cfr. F.
Spantigati, La gestione della strategia
ambientale, in “Rivista giuridica
dell’ambiente”, 2002 e M.C.
Tallacchini,
Ambiente e diritto della scienza incerta, in
Ambiente e diritto (a cura di S.
Grassi,
M. Cecchetti, A. Andronio),
Firenze,
1990, p. 57. Cfr. anche M.C.
Tallacchini,
F. Terragni, Le biotecnologie. Aspetti etici, sociali e
ambientali, Milano, 2004 e M.C.
Tallacchini,
B. De Marchi
(a cura di), Politiche dell’incertezza. Scienza e
diritto, in “Notizie di Politeia”, 2003. V.,
anche, Aa.Vv.,
Il rischio da ignoto tecnologico, in
Quaderni
della Rivista trimestrale di diritto e procedura
civile, 2002 e F.
Shrader,
Rischi ambientali, incertezza scientifica e
pubblica irrazionalità, in “Nuova civiltà delle
macchine”, 1991. Anche il CNB nel documento Il
principio di precauzione, cit., pp. 19-20,
accenna alla evoluzione del rapporto diritto e
scienza nella direzione indicata soffermandosi sulla
cause: “Si tratta in primo luogo degli effetti
creati dalla crescente incertezza
epistemologicamente riconosciuta alla ‘verità’
scientifica; dalla consapevolezza acquisita dai
giuristi della specificità che caratterizza la
regolazione della materia ambientale in una società
pluralista ed infine anche dalla constatazione – in
occasione di taluni disastri ambientali – della
insufficiente previsione dei rischi che la scienza
applicata – affidata ai tecnocrati – avrebbe dovuto
prendere in considerazione prima dell’agire
industriale. Il diritto allora si fa interprete del
malessere della gente per l’insicurezza sulla vita,
sull’ambiente, sulla salute e del clima di sospetto
che un carattere sempre più aggressivo della
ricerca, con le manipolazioni della materia vivente,
viene a determinare verso la scienza tout court.
Si è così prodotto un radicale sovvertimento delle
condizioni che rendevano possibile il rispettoso
rapporto a distanza tra scienze e diritto”.
[10]
M.C.
Tallacchini,
Principio di
precauzione e filosofia pubblica dell’ambiente,
in C. Quarta
(a cura di),
Una nuova etica per l’ambiente, Bari, 2006, p.
98.
[11]
Per la Tallacchini, il “diritto dell’ambiente è nato
come una realtà composita, in cui la rapsodicità e
la disomogeneità degli interventi, determinate dalla
crescente e affrettata necessità di disciplinare
settori diversi […] hanno a lungo ostacolato una
riflessione unitaria e l’individuazione di un nucleo
coerente di principi ispiratori. Ma dopo una
nebulosa fase iniziale, la giuridificazione
dell’ambiente è divenuta la sede di una stimolante
riflessione critica sul diritto e la scienza che,
oltre ad essere all’origine del nucleo teorico
innovatore nel diritto ambientale, si pone anche
come più generale elaborazione delle linee di un
diritto della scienza” (Ambiente e diritto,
cit., p. 62). V. anche, della stesa autrice,
Diritto per la natura, cit., p. 269 e ss.
[12]
“L’idea che la scienza possa essere in qualche modo
“post-normale” trasmette un senso di paradosso e
forse di mistero. Il termine “normalità” può avere
due significati. Il primo allude - secondo la teoria
di Thomas S. Kuhn (T. S.
Kuhn, The Structure of
the Scientific Revolutions, University of
Chicago Press, Chicago, 1962) - all’immagine della
ricerca scientifica che normalmente consiste nel
risolvere un rompicapo all’interno di un (qui)
indiscusso e indiscutibile “paradigma”. Il secondo
significato consiste nel ritenere che il contesto
politico-decisionale sia normale, nel senso che
l’attività routinaria di soluzione di rompicapo
realizzata dagli esperti fornisca una base di
conoscenza adeguata per le decisioni politiche […]
L’intuizione che conduce
alla Scienza Post-Normale consiste nel fatto che,
nei problemi di ricerca finalizzati a scelte
politiche, tipicamente i fatti sono incerti, i
valori controversi, le poste in gioco alte e le
decisioni urgenti. Si potrebbe obiettare che tali
problemi non sono scientifici; ma è facile
rispondere che questi problemi sono ubiqui e che
quando la scienza viene applicata ad essi (come di
fatto accade), le condizioni non sono mai di
normalità. Infatti la precedente distinzione tra
dati scientifici e oggettivi hard, e giudizi
di valore soggettivi softviene in questo caso invertita. Troppo spesso
si devono prendere decisioni politiche dure laddove
i nostri inputsscientifici sono irrimediabilmente fragili
[…] Nei nuovi problemi di scienza post-normale la
qualità dipende da un dialogo aperto tra tutti
coloro che ne sono toccati. Possiamo chiamare
l’insieme di tali soggetti “comunità estesa di pari
grado (peers)”, una comunità formata non solo
da individui istituzionalmente accreditati, ma
piuttosto da tutti coloro che desiderano partecipare
alla risoluzione di una questione, contribuendo con
il proprio sapere. L’approccio della Scienza Post
Normale non deve essere interpretato come un attacco
alla scienza accreditata degli esperti, ma piuttosto
come un aiuto e un arricchimento. Il mondo della
scienza normale al quale questi scienziati sono
allenati trova un posto nella ricerca destinata a
finalità pubbliche, ma richiede di essere integrata
con la consapevolezza della natura post-normale dei
problemi con i quali ci confrontiamo”(S.
Funtowicz,
La scienza
post-normale. Scienza e governance in condizioni di
complessità, in www.gdrdidatticasn.unibo.it
).
[13]
M.C.
Tallacchini, Ambiente e diritto, cit.,
p. 58. Anche per F.
D’Agostino,
Relazione al Congresso della Società Italiana
di Filosofia Giuridica e Politica, Catania 2004,
(versione provvisoria): “Le stesse lacune
conoscitive che nel suo progredire la scienza sempre
più frequentemente riconosce come necessarie e
inevitabili e che quindi, in quanto scienza,
riconosce di non poter gestire vengono oggi sempre
più spesso colmate attraverso l’intervento
autoritario del diritto”. Per D’Agostino, alla base
del mutato rapporto tra diritto e scienza non ci
sono solo questioni di tipo epistemologico, legate
all’emergere del carattere dell’incertezza, ma anche
dinamiche di tipo sociologico: “il nuovo impatto
sociale, in termini di rischio, di pressoché tutte
le imprese scientifiche di frontiera (caso esemplare
quello della genetica) apre inevitabilmente a carico
della scienza inquisizioni, processi o almeno spazi
pubblici e collettivi di discussione un tempo
inimmaginabili, che spingono perché il diritto
superi la sua tradizionale
neutralità nei confronti dell’operato degli scienziati e riassume
nei loro confronti un potere
giudicante”.
In altri termini, “dobbiamo ormai riconoscere che i
giudici – attraverso la dilatazione della categoria
del risarcimento del danno – acquisiscono nei
confronti delle pratiche scientifiche e tecnologiche
poteri di intervento tradizionalmente
inimmaginabili, soprattutto nei confronti di quelle
tecnologie che, potendo essere adeguatamente testate
solo nell’ambiente, rendono obsoleta la distinzione
tra indagini confinate in laboratorio e la loro
applicazione al mondo esterno […] si può sostenere
che non esiste più un singolo ambito […] in cui la
ricerca scientifica non venga a trovarsi sotto il
sindacato, almeno potenziale, del diritto”. È
condivisibile, più in generale, la tesi di A.C.
AmatoMangiameli,
Stati post-moderni e diritto dei popoli,
Torino, 2004, p. 11, secondo la quale, diversamente
dal moderno, “l’evoluzione sociale postmoderna è
dominata dall’incertezza e dalla imprevedibilità,
dalla complessità e dal disordine: di qui il
miraggio del futuro e il timore per le sorti
incerte. E se l’incertezza e l’imprevedibilità, la
complessità e il disordine, dominano la scena,
minando così il primato moderno della ragione – e
con questo la fiducia nella scienza, nel progresso,
nella storia, nell’universalità -, il relativismo
spiega e giustifica ogni richiesta e qualsiasi
pretesa, e nuovi paradigmi e nuove figure (del
rizoma, del labirinto, o della rete) sono proposti
per esplorare i territori della complessità e del
disordine”. Su questi temi, v., naturalmente, Z.
Bauman,
La società dell’incertezza, Bologna, 1999 e
Modernità liquida, Roma-Bari, 2002. Per una
lettura in prospettiva teoretica delle tesi di
Bauman, cfr. C.
Vecchiet,
Modernità liquida, diritto e politica. Contributo ad un’attualizzazione
del pensiero di A. Rosmini, in M.
Sirimarco
(a cura di),
Itinerari di cultura giuridica e politica, Roma,
2006.
[14]
L. Marini,
Il principio di precauzione, cit., p. 8. Cfr.
A.C. AmatoMangiameli,
Stati post-moderni e diritto dei popoli,
cit., pp. 131-132, per la quale “la razionalità del
diritto contemporaneo oltre che dagli esperti, per
alcune fondamentali questioni, deve essere garantita
dal ricorso ai
saggi, ‘à des personnalités investies d’une autorité morale
incontestable’, che, meglio di altri, sono in
condizione di valutare non soltanto i rischi
accettabili e la possibilità del ricorso al
principio
di precauzione, ma più ampiamente di operare
perché quel qualcosa di elementarein senso fortee di universalmente umano: la coesistenza
giuridica, non sia trascurato, e non sia al contempo
trascurata quella dimensione entro cui si colloca
sempre e comunque la decisione dei giudici: la
difesa della
personalità”.
[15]
M.C.
Tallacchini, Ambiente e diritto, cit.,
p. 58. Cfr. CNB, Il principio di precauzione,
cit., p. 18, che, comunque, su questi temi riprende
molte delle tesi della Tallacchini.
[16]
H. Arendt,
Vita activa.
La condizione
umana, Milano, 1989, p. 3. Cfr. anche
F. D’Agostino,
Relazione, cit., che, dopo aver sottolineato
l’importanza dello scienziato come attore sociale,
riconosce “l’eccezionale risonanza [dalla scienza]
acquisita nella modernità sul sistema
socio-politico, che si era tradotta
epistemologicamente nella ideologia dello
scientismo. In termini politici, ciò comporta il
tentativo di dar vita ed imporre una nuova
accattivante concezione della democrazia, del tutto
coerente con le pretese dell’orizzonte post-moderno.
La democrazia non andrebbe più intesa come la
dottrina che indica nel riferimento alla volontà
della maggioranza il criterio per assumere decisioni
in merito alla gestione di interessi collettivi, ma
come la pratica sociale che, destrutturando ogni
linguaggio che pretende di assumere valenze
autoritative (come appunto quello della scienza),
predispone le modalità istituzionali per collocare
nella società civile il luogo per discutere e
negoziare ogni forma di autorità”. Sul legame tra
scienza e politica, cfr. T.
Serra,
La democrazia redenta. Il cammino senza fine
della democrazia, Torino, 2001, p. 103 e ss.
[17]
S. Cotta,
La sfida tecnologica, cit., pp. 175-176: la
politica “ha bisogno dei tecnici, abituati al
calcolo, alle previsioni scientifiche, alla
razionalizzazione dei rapporti secondo metodi sempre
più matematici. I sentimenti, le opinioni, gli
impulsi personali, vi hanno influenza solo sevengono adeguatamente formalizzati, cioè resi
elementi del calcolo ragionato in cui si concreta la
decisione politica. Il politico vecchio stile potrà
servire transitoriamente, se dominato dai tecnici,
per attrarre le masse, ma poi dovrà cedere il passo
a un nuovo tipo di politico, capace, oltreché di
comprendere le aspirazioni dell’uomo comune, di
dirigere e coordinare il lavoro dei tecnici”.
[18]
CNB, Il principio di precauzione, cit., p.
21: “La scienza connessa a, e implicata in, scelte
pubbliche rivelerebbe un peculiare statuto
metodologico, dovendo contribuire alla definizione
di questioni che, rivolgendosi alla società, sono
legate a valutazioni molto ampie, anche laddove
ricevano una formulazione scientifico-tecnica”. Sul
tema della partecipazione della pubblica opinione
alle scelte scientifiche, sull’expertise e
sulla governance della scienza, cfr. M.C.
Tallacchini,
B. DeMarchi
(a cura di), Politiche dell’incertezza. Scienza e
Diritto, in “Notizie di Politeia”, n. 70/2003;
L. Marini,
Il principio di precauzione, cit., p. 34 ss.;
M.C.
Tallacchini, Giudici, esperti, cittadini:
scienza e diritto tra validità metodologica e
credibilità civica, in “Notizie di Politeia”,
2003. Per un approfondimento sulla crisi della
partecipazione come momento nevralgico della crisi
delle odierne democrazie, cfr. i lavori di T.
Serra,
La disobbedienza civile.
Una risposta
alla crisi della democrazia?, Torino, 2001, e
La democrazia redenta, cit., diffusamente.
[19]
Nella materia ambientale le esigenze di una maggiore
trasparenza dell’azione pubblica e di una vera
partecipazione della pubblica opinione al processo
di
decision-making sono sempre più avvertite.
Merita di essere ricordata la Convenzione di Aarhus
del 1999 ma entrata in vigore nel 2001 che ha
cercato di definire un nuovo modello di
governance
ambientale basato su tre essenziali pilastri: il
diritto di accesso all’informazione ambientale con
la conseguente estensione del concetto di
informazione ambientale; la partecipazione del
pubblico al processo decisionale; l’accesso alla
giustizia nel caso di violazione del diritto di
accesso e di partecipazione. L’Unione Europea ha
cercato di adeguare ai principi sanciti dalla
Convenzione la sua normativa con la emanazione di
alcune importanti direttive (2003/4/CE, 2003/35/CE)
sul diritto di accesso e sulla partecipazione. La
prima di queste direttive è stata recepita nel
nostro ordinamento (dove è anche in vigore il d.lgs.
n. 39/1997 che per la prima volta ha introdotto il
diritto soggettivo di accesso alle informazioni
ambientali) con il d.lgs. n. 195/2005 che ha
stabilito i principi generali in materia di
informazione ambientale. Più complesso appare il
discorso sulla effettiva partecipazione al processo
decisionale e sulla giustiziabilità dei suddetti
diritti.
[20]
Sul modello americano di governance, cfr. S.
Jasanoff,
The Fifth Branch. Science Advisers as
Policymakers, Cambridge, 1990; A.
Irwin,
B. Wynne (a cura di), La scienza davanti ai giudici. La
regolazione giuridica della scienza in America,
Milano, 2001. La Tallacchini ha parlato, a proposito
di questo modello, di una strategia che consente di
salvare l’idea di validità della scienza e, allo
stesso tempo, di primato del diritto (Le
biotecnologie, cit., p. 145). O non si tratta
piuttosto, come provocatoriamente ma non troppo, ha
sostenuto Oriana Fallaci, commentando la triste
storia di Terri Schiavo, di scacco del diritto e di
rischio di una dittatura dei giudici? (O.
Fallaci,
Barbablù e il mondo nuovo, in “Il Foglio”, 13
aprile 2005).
[21]
Si passa da una ‘scienza incerta’ a una ‘scienza
negoziata’? Cfr. G.
Guizzardi (a cura di), La scienza negoziata. Scienze
biomediche nello spazio pubblico, Bologna, 2002.
Sul concetto di governace, legato ad una
visione inclusiva e non esclusiva della sovranità
statale, v. A.C.
AmatoMangiameli, Stati post-moderni, cit., p. 65 e ss.
[22]
M.C.
Tallacchini, Ambiente e diritto, cit.,
p. 64. Sul rapporto tra diritto politica e scienza,
cfr. A.
Germanò, Gli aspetti giuridici
dell’agricoltura biotecnologia, in
Id. (a
cura di), La disciplina giuridica
dell’agricoltura biotecnologia, Milano, 2002, p.
351 ss.
[23]
M.C.
Tallacchini, Ambiente e diritto, cit.,
pp. 68-69.
[24]
M.C.
Tallacchini, Ambiente e diritto, cit.,
p. 70: “fino a tempi non lontani appariva ovvio che
le leggi di natura fossero sottratte alla
brevettabilità giuridica, perché la natura si scopre
non si inventa. Ma la separazione tra scoperta e
invenzione è divenuta sempre meno univoca e si è
affermata la sostanziale equivalenza, e dunque
uguale brevettabilità, tra materia inerte e
vivente”. Per una ricostruzione molto severa di
tutta la problematica dei brevetti e della proprietà
intellettuale in campo biotecnologico, v. V.
Shiva,
Il mondo sotto brevetto, Milano, 2002.
[25]
M.C.
Tallacchini, Ambiente e diritto, cit.,
p. 73 ss. I tratti caratterizzanti questa incertezza
appaiono oltremodo … incerti: “si può parlare di
incertezza del sapere scientifico sia in senso
oggettivo sia in senso soggettivo. L’idea di
incertezza oggettiva denota le varie forme di
indeterminazione derivanti dalla complessità delle
conoscenze, dalla mancanza o dall’insufficienza di
dati, dalla imprevedibilità degli esiti, dal
carattere stocastico delle previsioni. L’idea di
incertezza soggettiva allude invece alle dimensioni
valutative che percorrono la scienza, e da cui
dipendono la configurazione data alle conoscenze e
le scelte a favore di talune teorie” (p. 74). Lo
statuto epistemico dell’ignoranza può riassumersi in
quattro connotazioni differenti: rischio,
incertezza, ignoranza in senso proprio e
indeterminatezza. Nel caso del rischio siamo in
presenza, nella valutazione di un evento, di una
serie di variabili conosciute e di probabilità
quantificabile di esiti differenti. Si ha incertezza
quando, pur essendo conosciuti i parametri di un
sistema, non si conosce la probabilità del
verificarsi di un evento perché non è nota
l’incidenza dei fattori in gioco. Si parla di
ignoranza in senso stretto quando i dati, i fattori,
le variabili non sono conosciuti. Infine,
l’indeterminatezza “è il concetto che riassume il
carattere tendenzialmente aperto e condizionale di
ogni conoscenza, in particolare la sua valenza
contestuale, la sua determinabilità socio-culturale
– carattere, questo, che segna il passaggio tra
incertezza oggettiva e soggettiva” (p. 75).
[26]
Questa procedura, nata in alcuni Stati americani, è
stata introdotta per la prima volta in Europa dalla
legislazione tedesca nel 1975. Successivamente è
stata fatto oggetto della normativa comunitaria
(Direttiva 85/337/EEC modificata dalla direttiva del
Consiglio 97/11/EC. In Italia la procedura di
valutazione di impatto ambientale è stata adottata
con la legge istitutiva del Ministero dell’Ambiente
(L. 349/86) e con il DPCM 377/1988.
[27]
Questo principio, nato in Germania negli anni Trenta
del secolo scorso, è stato introdotto a livello
internazionale con la Dichiarazione di Rio de
Janeiro su ambiente e sviluppo del 1992. Nel diritto
comunitario ha trovato esplicitazione nell’art. 130R
del Trattato di Maastricht che ha, anche,
sottolineato la distinzione tra prevenzione e
precauzione. Nel 2000 la Commissione europea ha
qualificato il principio di precauzione come
principio generale delle politiche comunitarie. Per
P. Vineis,
M. Ghisleni,
Rischio, scienza, giustizia, in “Notizie di
Politeia”, XIX, 2003, p. 75: “si possono assumere
principalmente due atteggiamenti di fronte ad una
scelta nei confronti dei rischi ambientali in
mancanza di informazioni certe. La
Valutazione
di Impatto Ambientale ha una attitudine
neutrale nei confronti dei rischi e include
l’incertezza del rischio calcolabile in termini di
probabilità statistica (dando per scontato che si
possa sempre pervenire ad un giudizio scientifico
obiettivo). Invece, il
PrincipiodiPrecauzione non ha la pretesa di essere neutrale di fronte ad una
mancanza cronica di informazioni, ma esprime
piuttosto un preciso orientamento a favore di un
certo monitoraggio che può comportare spazi
temporali di inazione (ovvero riconosce la
centralità epistemica dell’ignoranza scientifica e
l’assume come un dato di conoscenza fra gli altri)”.
Cfr. F.
D’Agostino,Relazione, cit., per il quale il principio di precauzione
“sempre più appare alla stregua di una tecnica
extra-scientifica per colmare con valutazioni
giuridiche gli spazi ineliminabili di incertezza e
di rischio che il sapere scientifico e tecnologico
può cercare anche e con buone ragioni di
minimizzare, ma di cui non può con tutta onestà
negare l’esistenza”. Sul principio di precauzione,
cfr., oltre ai lavori citati nelle pagine
precedenti, M.C.
Tallacchini,
Principio di
precauzione e filosofia pubblica dell’ambiente,
in C. Quarta
(a cura di),
Una nuova etica per l’ambiente, Bari, 2006. In
una prospettiva giuridica, L.
Marini,
Il principio di precauzione nel diritto
internazionale e comunitario, Padova, 2004. Sul
problema delle generazioni future, v. V.
Hosle,
Il problema
dell’ambiente nel ventunesimo secolo, in
Una nuova
etica per l’ambiente, cit. e S.
Pratesi,
[28]
L. Marini,
Il principio di precauzione, cit., pp. 4-5.
In altri termini, “nella sua accezione più generale
di criterio di condotta ispirata alla esigenza di
tutela dell’ambiente e della salute umana, animale e
vegetale, il principio di precauzione è volto ad
assicurare il bilanciamento tra la naturale e
spontanea aspirazione dell’uomo al progresso delle
proprie conoscenze scientifiche e la necessità di
garantire il primato dell’esigenza di tutela […]
sugli interessi della scienza e della tecnologia. A
tale scopo il principio di precauzione ispira
l’elaborazione e l’attuazione di misure di gestione
dei rischi suscitati dal progresso tecnico
scientifico, tenendo conto delle necessità vitali
non solo delle generazioni presenti, ma anche di
quelle future”.
[29]
Sulle pagine della rivista “Nature” (425: 663-4,
2003 e 426: 227, 2003) si è alimentato un vivace
dibattito su questo aspetto.
[30]
S. Bartolommei,
Sul valore morale del principio di precauzione:
norma assoluta o regola procedurale?, in
www.zadig.it,
del 25/09/2002. Per l’A. sono stati tre i motivi che
hanno spinto alla trasformazione accennata del
principio da criterio guida in principio morale
sostantivo: l’aver occultato il carattere
provvisorio del principio; l’aver confuso il
significato procedurale e sostanziale della
precauzione; l’aver ancorato la valutazione morale
alle modalità tecniche con cui si compie l’azione.
Dello stesso autore, cfr. Le nuove biotecnologie
agroalimentari e l’etica della biocultura, in
“Bioetica. Rivista interdisciplinare”, 2/2000.
[31]
S. Bartolommei,
Sul valore morale del principio di precauzione,
cit.
[32]
M.C.
Tallacchini, Ambiente e diritto, cit.,
p. 91. Cfr. F.
D’Agostino, Introduzione a CNB,
Il
principio di precauzione, cit., p. 6, “il
principio di precauzione ha una duplice consistenza,
epistemologica ed etica. Separare le due dimensioni
non è possibile, anche se molti lo riterrebbero
auspicabile. Un’elaborazione puramente tecnica del
principio di precauzione sarebbe infatti del tutto
cieca, cioè incapace di individuare quali dimensioni
del bene umano meritano di essere protette contro
rischi futuri, con quali tipi di impegno, con quali
costi (economici e non economici)”. Anche per L.
Marini,
Il principio di precauzione, cit., p. 7, il
principio in esame “dispiega una fisionomia
chiaramente metagiuridica, poiché assume
sollecitazioni di natura etica a fonte di
legittimazione dei ‘processi decisionali complessi’
propri della società contemporanea. Tali processi
decisionali, che nell’arco di pochi anni si sono
sostituiti al dogma di un ordine sociale
apparentemente immutabile, presuppongono e
comportano nuove modalità di pensiero e di azione,
che trovano nella precauzione il loro paradigma. In
tal senso può farsi riferimento alla dimensione
giuridica della precauzione come a un ‘diritto della
globalità’, che richiede un approccio globale per la
gestione di fenomeni interdipendenti, e a un
‘diritto dell’incertezza’, che impone alle autorità
decisionali di gestire l’incertezza preferendo, tra
più strategie future ugualmente possibili, quelle
meno incerte. Ma il principio di precauzione assume
anche le vesti di un ‘diritto dell’anticipazione’,
che evidenzia la necessità di assumere in
considerazione nei processi decisionali di oggi gli
effetti potenziali che, domani, potrebbero
discendere da determinate attività umane”.
[33]
M.C.
Tallacchini, Ambiente e diritto, cit.,
p. 92.
[34]
Cfr. CNB, Il principio, cit., p. 26 ss. In
definitiva, dal punto di vista filosofico, il
principio di precauzione “si basa sulla presa di
coscienza della finitezza ontologica dell’uomo e
sulla fragilità della natura (presente e futura) di
fronte alla scienza e alla tecnologia, che
manifestano sempre più il loro statuto ambiguo (da
un lato di crescente potere dall’altro di
strutturale indeterminatezza). Il principio di
precauzione si fonda filosoficamente sulla
consapevolezza della asimmetria (tra uomo e natura
da una parte e scienza e tecnologia dall’altra) e
sull’impegno nella ricerca di strategie politiche
per superarle al fine di ricostituire le condizioni
(bioetiche e biogiuridiche) per garantire una
relazionalità simmetrica. La società avverte da un
lato l’esigenza e l’inevitabilità dell’avanzamento
tecnico scientifico, ma dall’altro legge nel
progresso una potenziale minaccia all’uomo e alla
natura, alla dignità umana e alla difesa
dell’ambiente” (p. 31). Come ha puntualizzato L.
Marini,
Il principio di precauzione, cit., p. 10, si
tratta di un “principio metagiuridico necessario ai
nostri tempi, perché in grado di conciliare etica e
diritto [che] ricava dal suo peculiare statuto
epistemologico non solo la forte dose di originalità
che arricchisce la complessità della indagine ad
esso relativa, ma anche una serie di limiti
intrinseci e significativi, probabilmente
inevitabili in un principio che svolge funzioni
diverse e che si colloca alla linea di confine tra
valutazioni scientifiche ed etiche, politiche e
giuridiche”. Sulla differenza tra principio di
responsabilità e principio di precauzione, cfr.
anche F. Ewald,
Philosophiepolitique du principe de précaution,
in F. Ewald,
C. Collier,
M. DeSadeleer,
Le principe de précaution, Paris, 2001.
[35]
M.C.
Tallacchini, Ambiente e diritto, cit.,
p. 93.
[36]
Cfr. A.
Kaufmann, Riflessioni giuridiche e
filosofiche su biotecnologia e bioetica alla soglia
del terzo millennio, cit., p. 212 e ss. che si
chiede quali mezzi ha a disposizione la bioetica per
valutare la liceità delle biotecnologie. Preso atto
che oggi non è più possibile il ricorso ad un ordine
precostituito di matrice giusnaturalistica e dopo
aver criticato il
topos
della dignità umana che rappresenterebbe, tutt’al
più, fondandosi su una visione ideologica dell’uomo,
solo una formula con cui si dà un nome ad un
consenso esistente, Kaufmann sostiene che occorre
che ogni decisione normativa sia suscettibile di
generalizzazione, occorre cioè che in essa si
esprima un universale. Per operare tale decisione
generalizzante è possibile rinvenire
nell’esperienza, e l’esperienza della filosofia è il
suo presentarsi nella storia, alcuni principi per il
comportamento etico e giuridico: il principio
dell’eguaglianza di trattamento, la regola aurea, il
principio di generalizzazione, il principio di
autonomia, il principio di equità, di responsabilità
e di tolleranza. Mi sembra molto utile, anche se non
totalmente condivisibile, la prospettiva di questo
autore soprattutto nel momento in cui assegna al
principio di tolleranza il ruolo molto importante di
completamento del principio di responsabilità e di
quello di precauzione: “in una società ad elevata
complessità, nessuno può agire responsabilmente
senza correre il rischio di una errata valutazione
delle situazioni in cui si deve agire […] D’altronde
è assolutamente impossibile stabilire un principio
per il quale in caso di comportamento a rischio, non
chiaramente valutabili in anticipo, sia obbligatorio
non agire. Il nostro mondo si fermerebbe. Un simile
principio non sarebbe sostenibile neppure nella
tecnologia biologica e nell’ingegneria genetica. Non
abbiamo scelta, dobbiamo, come dice Popper
‘procedere nell’ignoto, nell’incerto,
nell’insicuro’. Ma poiché dobbiamo far questo, la
tolleranza è uno dei più importanti imperativi etici
del mondo moderno, incomparabilmente più importante
di quanto lo fosse nel mondo chiuso di Platone e
Tommaso d’Aquino. Per poter dominare i nostri
compiti per il futuro, dobbiamo essere aperti al
nuovo. L’atteggiamento aperto in via di principio
verso ciò che è diverso e nuovo, e quindi anche
verso la ricerca nell’ignoto, si chiama tolleranza”.