La giornata della memoria

il Fondino del 30 Gennaio 2014

La giornata della memoria

Sedicenni, facevamo visita a Mario che viveva a Mongrassano a poca distanza da Ferramonti; a quell’età quando si poteva.

Mi piaceva la campagna, quell’atmosfera larga che ti apriva il cuore e ti offriva gli odori delle piante vicine alla casa rurale. Anche nei giorni uggiosi era bello.

Un giorno ci disse se volevamo visitare le casette di Ferramonti, una volta abitate dagli ebrei tenuti lì dal fascismo.

Quella volta non entrammo nei locali, eravamo intimoriti dal silenzio, anche se di campagna aperta, ma osservavamo incuriositi con occhi ben aperti il profilo di quelle baracche molto malandate, senza porte e fra l’una e altra alte erbacce.

Mario ci disse che quelle baracche non erano del tutto abbandonate perché i contadini della zona li utilizzavano per essiccare le foglie di tabacco che venivano appese ad in tondino di ferro messo da una parte all’altra delle pareti. Ci disse che non c’era più nulla da vedere e che non c’era traccia di coloro che l’avevano abitata, gli ebrei italiani e quelli stranieri deportati in Italia.

Molti anni dopo ne seppi di più della vita del campo perché il mio amico Franco Folino pubblicò, nel suo “Ferramonti – Un lager di Mussolini” del 1985, l’inventario analitico della documentazione relativo al campo di Ferramonti di Tarsia in provincia di Cosenza negli anni 1940-1943. I lavori di costruzione del campo vengono affidati il 30 maggio 1940 e l’esecuzione dell’opera inizia il 4 del mese successivo; gli internati raggiungono il numero di 3823 di cui 141 ebrei italiani. Finchè dopo l’armistizio, con un dispaccio del 10 settembre 1943 firmato dal Ministro degli Interni ed indirizzato al Prefetto ed al Direttore del campo, si comunicava che “… gli internati possono essere liberati et avviati con foglio di via obbligatorio località da essi prescelte fornendo loro vitto, mezzi, ecc…”        

Intanto appena diciottenni avevamo la possibilità, di domenica mattina, di tornare in quei luoghi con Enzo, Ciccio e Mario a visitare con un poco più di attenzione e consapevolezza l’interno di quelle baracche abbandonate, preda dell’incuria e aggredite dalle intemperie.

Ci avvicinavamo, rispettosi ma inesperti di indagini di quel genere, ed osservavamo le pareti, le uniche che dessero la sensazione che di là, malgrado tutto, era passata la vita.

A guardare con più attenzione, comparivano disegnini infantili di fiorellini alcuni finanche ancora colorati, altri tracciati col carbone; ad un tratto alcuni versi scritti in tutte le lingue anch’essi col carbone; alcuni, che riuscivamo a decifrare, facevano riferimenti ad affetti familiari, questo ricordo, poesie semplici fatte di poche parole ed alcune terminavano con una lode a Dio. Credo per pudore, non ci venne di fotografarle o di copiarle.

Avevamo solamente una stretta al cuore perché quelle testimonianze, per quanto semplici, erano sulla via di perdersi per sempre, non custodite nè riparate. Ed era uno spettacolo triste ed avvertivamo tutta l’impotenza di porvi rimedio.

Il percorso della conoscenza della violenza antiebraica continuò ma non intensamente; però non si interruppe mai il contatto con il filo rosso delle vicende delle persecuzioni naziste.

Ma al Sud non siamo stati educati a coltivare la curiosità e l’approfondimento di quel che fu l’olocausto e la sua vergogna.

Anche della vergogna della indifferenza mostruosa  che permise ciò che fu l’olocausto.

Da un racconto di una sopravvissuta da Birkenau si dice che la gente al passaggio dei convogli pieni di quella umanità dolente soprattutto proveniente dal fronte di guerra orientale, semplicemente spariva, non c’era. Evitava di esserci e faceva finta che tutto scorresse normalmente. Il non crederci era una giustificazione alla viltà. Crederci avrebbe significato apprendere dello sterminio di più di un milione di vittime solamente in quel campo vicino Auschwitz.         

Vengono i brividi a pensare che nel 1978, assistendo ai Campionati del mondo di calcio, non si considerava che immediatamente prima o anche durante quelle partite di calcio, la tortura e le persecuzioni fino alle esecuzioni  feroci dei dissidenti adulti e giovani, femmine e uomini, popolavano le stanze della polizia argentina di Videla. Anche in quella occasione la indifferenza era miele più ancora dell’oblio.

Quando ebbi possibilità di visitare i luoghi della memoria mi interessavano alcune stazioni del Brandeburgo da dove si avviavano ebrei e di altre etnie ai campi di concentramento, lugubri luoghi che ancora oggi emanano senso di angoscia. Passeggiando per Berlino capitavo spesso in Wittenbergplatz dove, davanti la metropolitana, è posta la iscrizione dei “luoghi dell’orrore che non dobbiamo mai dimenticare”.

A Dacau invece avvertivo il desiderio di morte degli internati che avrebbe indotto i loro corpi ad essere insensibili alla sofferenza fisica così da tenere più in alto lo spirito e renderlo eterno proprio perché umano.

La commozione del girare per padiglioni e forni crematori, la desolazione dei posti comuni è profonda e invincibile per noi che quotidianamente è come se sopravvivessimo a quella immane tragedia.

Ma prevale la sensazione che quegli spiriti, che sentivano morire ogni giorno la speranza, chissà da cosa erano sostenute per sopravvivere alla disperazione di quella apocalisse.

La domanda non è retorica, essendovi molte risposte. La domanda è opportuna perché effettivamente il vento della sopraffazione e della violenza cieca e razzista aleggia tuttora nell’Europa in crisi, alla ricerca di una sua vera identità. L’adozione del liberismo e della delega alla finanza non sostituisce la complessità della nostra civiltà

Un refolo di quel respiro, vivo ancora nel profondo dell’anima, di quegli uomini e quelle donne non conosciute ma non senza nome, l’ho avvertito nella chiesetta cattolica, costruita dopo la liberazione nel campo: è a forma di grande alta grotta senza nulla, senza ornamenti, profonda da  dare il senso dell’infinito. E poi il silenzio !

Quel giorno a ricordarci la vita, a farcelo comprendere quel silenzio, c’era il verso di un uccellino che vagando per l’aria, impertinente e garrulo, entrava ed usciva dalla grotta.  

 

        Franco Petramala