Sedicenni, facevamo visita a Mario che viveva a Mongrassano a
poca distanza da Ferramonti; a quell’età quando si poteva.
Mi
piaceva la campagna, quell’atmosfera larga che ti apriva il
cuore e ti offriva gli odori delle piante vicine alla casa
rurale. Anche nei giorni uggiosi era bello.
Un
giorno ci disse se volevamo visitare le casette di Ferramonti,
una volta abitate dagli ebrei tenuti lì dal fascismo.
Quella volta non entrammo nei locali, eravamo intimoriti dal
silenzio, anche se di campagna aperta, ma osservavamo
incuriositi con occhi ben aperti il profilo di quelle baracche
molto malandate, senza porte e fra l’una e altra alte erbacce.
Mario ci disse che quelle baracche non erano del tutto
abbandonate perché i contadini della zona li utilizzavano per
essiccare le foglie di tabacco che venivano appese ad in tondino
di ferro messo da una parte all’altra delle pareti. Ci disse che
non c’era più nulla da vedere e che non c’era traccia di coloro
che l’avevano abitata, gli ebrei italiani e quelli stranieri
deportati in Italia.
Molti anni dopo ne seppi di più della vita del campo perché il
mio amico Franco Folino pubblicò, nel suo “Ferramonti – Un lager
di Mussolini” del 1985, l’inventario analitico della
documentazione relativo al campo di Ferramonti di Tarsia in
provincia di Cosenza negli anni 1940-1943. I lavori di
costruzione del campo vengono affidati il 30 maggio 1940 e
l’esecuzione dell’opera inizia il 4 del mese successivo; gli
internati raggiungono il numero di 3823 di cui 141 ebrei
italiani. Finchè dopo l’armistizio, con un dispaccio del 10
settembre 1943 firmato dal Ministro degli Interni ed indirizzato
al Prefetto ed al Direttore del campo, si comunicava che “… gli
internati possono essere liberati et avviati con foglio di via
obbligatorio località da essi prescelte fornendo loro vitto,
mezzi, ecc…”
Intanto appena diciottenni avevamo la possibilità, di domenica
mattina, di tornare in quei luoghi con Enzo, Ciccio e Mario a
visitare con un poco più di attenzione e consapevolezza
l’interno di quelle baracche abbandonate, preda dell’incuria e
aggredite dalle intemperie.
Ci
avvicinavamo, rispettosi ma inesperti di indagini di quel
genere, ed osservavamo le pareti, le uniche che dessero la
sensazione che di là, malgrado tutto, era passata la vita.
A
guardare con più attenzione, comparivano disegnini infantili di
fiorellini alcuni finanche ancora colorati, altri tracciati col
carbone; ad un tratto alcuni versi scritti in tutte le lingue
anch’essi col carbone; alcuni, che riuscivamo a decifrare,
facevano riferimenti ad affetti familiari, questo ricordo,
poesie semplici fatte di poche parole ed alcune terminavano con
una lode a Dio. Credo per pudore, non ci venne di fotografarle o
di copiarle.
Avevamo solamente una stretta al cuore perché quelle
testimonianze, per quanto semplici, erano sulla via di perdersi
per sempre, non custodite nè riparate. Ed era uno spettacolo
triste ed avvertivamo tutta l’impotenza di porvi rimedio.
Il
percorso della conoscenza della violenza antiebraica continuò ma
non intensamente; però non si interruppe mai il contatto con il
filo rosso delle vicende delle persecuzioni naziste.
Ma
al Sud non siamo stati educati a coltivare la curiosità e
l’approfondimento di quel che fu l’olocausto e la sua vergogna.
Anche della vergogna della indifferenza mostruosache permise ciò che fu l’olocausto.
Da
un racconto di una sopravvissuta da Birkenau si dice che la
gente al passaggio dei convogli pieni di quella umanità dolente
soprattutto proveniente dal fronte di guerra orientale,
semplicemente spariva, non c’era. Evitava di esserci e faceva
finta che tutto scorresse normalmente. Il non crederci era una
giustificazione alla viltà. Crederci avrebbe significato
apprendere dello sterminio di più di un milione di vittime
solamente in quel campo vicino Auschwitz.
Vengono i brividi a pensare che nel 1978, assistendo ai
Campionati del mondo di calcio, non si considerava che
immediatamente prima o anche durante quelle partite di calcio,
la tortura e le persecuzioni fino alle esecuzioniferoci dei dissidenti adulti e giovani, femmine e uomini,
popolavano le stanze della polizia argentina di Videla. Anche in
quella occasione la indifferenza era miele più ancora
dell’oblio.
Quando ebbi possibilità di visitare i luoghi della memoria mi
interessavano alcune stazioni del Brandeburgo da dove si
avviavano ebrei e di altre etnie ai campi di concentramento,
lugubri luoghi che ancora oggi emanano senso di angoscia.
Passeggiando per Berlino capitavo spesso in Wittenbergplatz
dove, davanti la metropolitana, è posta la iscrizione dei
“luoghi dell’orrore che non dobbiamo mai dimenticare”.
A
Dacau invece avvertivo il desiderio di morte degli internati che
avrebbe indotto i loro corpi ad essere insensibili alla
sofferenza fisica così da tenere più in alto lo spirito e
renderlo eterno proprio perché umano.
La
commozione del girare per padiglioni e forni crematori, la
desolazione dei posti comuni è profonda e invincibile per noi
che quotidianamente è come se sopravvivessimo a quella immane
tragedia.
Ma
prevale la sensazione che quegli spiriti, che sentivano morire
ogni giorno la speranza, chissà da cosa erano sostenute per
sopravvivere alla disperazione di quella apocalisse.
La
domanda non è retorica, essendovi molte risposte. La domanda è
opportuna perché effettivamente il vento della sopraffazione e
della violenza cieca e razzista aleggia tuttora nell’Europa in
crisi, alla ricerca di una sua vera identità. L’adozione del
liberismo e della delega alla finanza non sostituisce la
complessità della nostra civiltà
Un
refolo di quel respiro, vivo ancora nel profondo dell’anima, di
quegli uomini e quelle donne non conosciute ma non senza nome,
l’ho avvertito nella chiesetta cattolica, costruita dopo la
liberazione nel campo: è a forma di grande alta grotta senza
nulla, senza ornamenti, profonda dadare il senso dell’infinito. E poi il silenzio !
Quel
giorno a ricordarci la vita, a farcelo comprendere quel
silenzio, c’era il verso di un uccellino che vagando per l’aria,
impertinente e garrulo, entrava ed usciva dalla grotta.