“Corruzione a Palazzo di Giustizia”

il Fondino del 27 Gennaio 2014

“Corruzione a Palazzo di Giustizia”

Avevo smarrito il testo del dramma di Ugo Betti, letto più volte scoprendone aspetti non conosciuti ancora.

Da anni non riuscivo a rivedere lo sceneggiato della RAI del 1967, recitato in modo magistrale da Glauco Mauri Tino Buazzelli Nando Gazzolo per la regia di Ottavio Spadafora.

Di recente mi è capitato fra le mani un numero di Sipario del 1949 ed ho riletto con gusto quel testo scritto nel 1944; sono riuscito a rivedere anche lo sceneggiato su Youtube (http://www.youtube.com/watch?v=UcOtom5xqGc): bozzetto drammatico di vita e di vite all’interno di Palazzo di Giustizia, che pullula di pulsioni e impressioni, manchevolezze e entusiasmi, infine ricco come è ricca la umanità dubbiosa di quel che si conosce o si debba conoscere, di quel che si ignora per pigrizia o volutamente.

Coscienti del proprio compito e della propria finitezza e debolezza che grava soprattutto sulla coscienza del singolo, poiché nessun allucinato riferirsi al sistema può oscurare la responsabilità della propria coscienza.

Si coglie pienamente nello svolgersi della descrizione del carattere e dei tratti somatici dei protagonisti del dramma di Ugo Betti la realtà del racconto; il Betti, anche egli giudice nella vita, non equivoca il tema grande e terribile della coscienza che si svela, più che in ogni altro dove, proprio in un palazzo di giustizia.

La buona coscienza “è tale se non teme la luce”. La paura, sostiene Betti, non è indotta dalle tenebre ma dalla luce perché essa pone immagini di verità e nitidi riflessi nello specchio.

L’intrigo tuttavia è prevalente ed è raccontato nel clima tenebroso e minaccioso del dramma; non è motivato soltanto dalla “voglia di potere” senza alcuna ragione apparente ma dalla gratificazione che solamente il narcisismo della sopraffazione può concedere, in ossequio ed a cagione di un potere esterno, come esterno era di principio la influenza malsana di Ludvi-Pol, affarista  influente al quale si ostentava subordinazione.

“La cattiveria diventa una specie di ossigeno che sostiene” la quotidiana battaglia per conquistare o detenere potere, come indica Betti, e contemporaneamente nessuno dei protagonisti si pone il tema della giustizia tanto obnubilato è il tema, appunto dall’intrigo.

Dirà uno dei protagonisti, tanto “dopo un poco di tempo la città già si occupa di altro” poiché “al sasso che va a fondo l’acqua del lago torna tranquilla”.

Disperata chiosa della solitudine di accusato e giudice perché infine “ciò che fu fatto e ciò che non fu fatto è tutto uguale” in nome della verità processuale.

Il dramma del Betti è un complesso di immagini di una umanità come fosse composta soprattutto da oloturie ed invece l’equivoco sta  nel fatto che “gli uomini sono abituati in genere a non conoscere la vita: generalmente molti uomini, purtroppo, muoiono senza aver mai conosciuto la vita, e così da un non-vivere passano a un altro non-vivere, da una morte alla luce passano a una morte nelle tenebre”. (1)

A poco varrà la generosità in punto di morte della confessione del Giudice Croz, ancorchè falsa. Il dubbio e il timore che il male possa rimanere impunito e perciò la giustizia non realizzata sono amare cose.   

Non so come, non so perché, non so da quale profondità risalgano le impressioni dopo aver rivisto “Corruzione a Palazzo di Giustizia”, ma esse rifiutano “il miele dell’oblio” e viene il desiderio di abbattere i muri dell’archivio dove l’archivista Malgai preferiva che fosse considerato becchino.

(1)    Da 1*Giuseppe Capograssi – Pensieri a Giulia

 

        Franco Petramala