Avevo smarrito il testo del dramma di Ugo Betti, letto più volte
scoprendone aspetti non conosciuti ancora.
Da
anni non riuscivo a rivedere lo sceneggiato della RAI del 1967,
recitato in modo magistrale da Glauco Mauri Tino Buazzelli Nando
Gazzolo per la regia di Ottavio Spadafora.
Di
recente mi è capitato fra le mani un numero di Sipario del 1949
ed ho riletto con gusto quel testo scritto nel 1944; sono
riuscito a rivedere anche lo sceneggiato su Youtube(http://www.youtube.com/watch?v=UcOtom5xqGc):
bozzetto drammatico di vita e di vite all’interno di Palazzo di
Giustizia, che pullula di pulsioni e impressioni, manchevolezze
e entusiasmi, infine ricco come è ricca la umanità dubbiosa di
quel che si conosce o si debba conoscere, di quel che si ignora
per pigrizia o volutamente.
Coscienti del proprio compito e della propria finitezza e
debolezza che grava soprattutto sulla coscienza del singolo,
poiché nessun allucinato riferirsi al sistema può oscurare la
responsabilità della propria coscienza.
Si
coglie pienamente nello svolgersi della descrizione del
carattere e dei tratti somatici dei protagonisti del dramma di
Ugo Betti la realtà del racconto; il Betti, anche egli giudice
nella vita, non equivoca il tema grande e terribile della
coscienza che si svela, più che in ogni altro dove, proprio in
un palazzo di giustizia.
La
buona coscienza “è tale se non teme la luce”. La paura, sostiene
Betti, non è indotta dalle tenebre ma dalla luce perché essa
pone immagini di verità e nitidi riflessi nello specchio.
L’intrigo tuttavia è prevalente ed è raccontato nel clima
tenebroso e minaccioso del dramma; non è motivato soltanto dalla
“voglia di potere” senza alcuna ragione apparente ma dalla
gratificazione che solamente il narcisismo della sopraffazione
può concedere, in ossequio ed a cagione di un potere esterno,
come esterno era di principio la influenza malsana di Ludvi-Pol,
affarista influente al
quale si ostentava subordinazione.
“La
cattiveria diventa una specie di ossigeno che sostiene” la
quotidiana battaglia per conquistare o detenere potere, come
indica Betti, e contemporaneamente nessuno dei protagonisti si
pone il tema della giustizia tanto obnubilato è il tema, appunto
dall’intrigo.
Dirà
uno dei protagonisti, tanto “dopo un poco di tempo la città già
si occupa di altro” poiché “al sasso che va a fondo l’acqua del
lago torna tranquilla”.
Disperata chiosa della solitudine di accusato e giudice perché
infine “ciò che fu fatto e ciò che non fu fatto è tutto uguale”
in nome della verità processuale.
Il
dramma del Betti è un complesso di immagini di una umanità come
fosse composta soprattutto da oloturie ed invece l’equivoco stanel fatto che “gli uomini sono abituati in genere a non
conoscere la vita: generalmente molti uomini, purtroppo, muoiono
senza aver mai conosciuto la vita, e così da un non-vivere
passano a un altro non-vivere, da una morte alla luce passano a
una morte nelle tenebre”. (1)
A
poco varrà la generosità in punto di morte della confessione del
Giudice Croz, ancorchè falsa. Il dubbio e il timore che il male
possa rimanere impunito e perciò la giustizia non realizzata
sono amare cose.
Non
so come, non so perché, non so da quale profondità risalgano le
impressioni dopo aver rivisto “Corruzione a Palazzo di
Giustizia”, ma esse rifiutano “il miele dell’oblio” e viene il
desiderio di abbattere i muri dell’archivio dove l’archivista
Malgai preferiva che fosse considerato becchino.