Borghesia e Modernità

il Fondino del 02 Giugno 2013

Borghesia e Modernità

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Circola una convinzione che tarda però a farsi interpretazione di ciò che viviamo attualmente.

Circola specialmente nell’Italia di oggi, smarrita e preoccupata di riflettersi in una identità perduta pur se parziale, l’idea di una comunità che tarda a diventare una vera nazione, come i risorgimentali pensavano potesse accadere già da molti decenni.

Circola l’idea che la borghesia italiana, pur se in passato si sia arrangiata con scelte molto discutibili e segnate da scorciatoie, abbia mollato del tutto e che la sua crisi di identità abbia fatto crollare questo paese prima ancora che il paese la trascinasse in questa crisi terribile.

In discussione non è il riconoscimento di supremazia di una classe sociale su un’altra classe sociale; sta di fatto che la borghesia, che è stata uno dei riferimenti strutturali fondamentali della capacità produttiva e gestoria del paese, la grande borghesia e la media e piccola borghesia, improvvisamente rinuncia a guidare il paese sulla via del rinnovamento. In alcuni casi il fenomeno è ancor più marcato nel Mezzogiorno.

Non è male ricordare la determinazione della borghesia del Nord, quella risultata poi vincente nei primi anni dell’Unità d’Italia, potente e vincente nel contrastare lo sviluppo della nascente borghesia del Sud, secondo la tesi apprezzabile di Federico Spantigati illustrata in un suo scritto del 1972 e riportato sul sito www.cosine2012.it.

Oggi quella borghesia lascia il campo ad epigoni ed è, come sempre, dissoluzione e impoverimento complessivo delle dinamiche sociali e politiche.

Proprio nel momento in cui il paese aveva necessità di essere guidato verso la sua trasformazione dopo la crisi del Muro di Berlino del 1989, la borghesia ed il ceto popolare, gli intellettuali ed i giovani, diventano collettivi evanescenti ed è come se tutto fosse sterilizzato.

Come in una commedia amara di Ionesco, ripetizione all’infinito ed in modo estenuante delle stesse parole, IMU esodati, default del bilancio ed attorno a questi vaniloqui il circo bianco si alterna alle emittenti televisive e si organizzano movimenti attorno manifesti e documenti presentati come “intelligenti”.

Non tanto i governi o i partiti e gli equilibri politici o l’apparato sociale sono entrati nell’avvitamento della crisi; è piuttosto come se si aprissero continuamente buchi che indeboliscono la “textura”, facendo presagire il collasso.

Non c’è dubbio che la modernità sia stata accompagnata nella sua evoluzione dalla borghesia, dal settecento in avanti; perfino l’arte ha realizzato forme di diffusione, inusuali nelle epoche precedenti, fino a divenire arte popolare, che affonda le sue radici nell’antropologia come in Nietzsche ed i filosofi dell’esistenza, tuttavia contaminandosi a metà del novecento con le teorie non borghesi ma marxiane come quelle di Lukacs o della Scuola di Francoforte.

Ma già avevamo avuto qualche esempio del compito dialettico della borghesia negli studi su Machiavelli di Gramsci o nella ricerca esemplare della spiritualità del quotidiano di Capograssi.

Il fenomeno popolare dell’arte e del suo messaggio per il popolo è della civiltà greca  e dopo 2000 anni l’arte diviene autonoma, “non più legata a committenti né a singoli fruitori di arte riconoscibili. Al loro posto è subentrato il pubblico”. Evento rivoluzionario come rivoluzionaria è stata l’azione della borghesia nel moderno a cui non corrisponde, almeno in Italia, un suo ruolo nella successiva crisi della modernità.

Il fenomeno è illustrato, forse con eccessiva dovizia di particolari, ma molto chiaramente da Thomas Nipperdey nel suo “Come la borghesia ha inventato il moderno”.

Così è per la evoluzione del mondo capitalistico italiano lì dove la borghesia industriale abbandona il mondo del sistema economico della produzione (vedi il caso recente di Fiat e della ex Montedison e la disperante deresponsabilizzazione di tutti nel caso ILVA di Taranto) per dedicarsi unicamente a quello finanziario.

L’impoverimento del sistema non è da dimostrare perché è sotto gli occhi di tutti e tutti possono osservare il trascinamento verso la rovina degli apparati produttivi minori e tuttavia diffusissimi in Italia.

Il fenomeno è evidente, a maggior ragione nel mezzogiorno, dove addirittura la struttura pubblica ed istituzionale, della cui unicità è connotata la storia del Sud, è stata abbandonata alle scorribande di una classe indistinta ed onnicomprensiva che senza identità occupa il potere per il potere.

Si mette alla guida di automobili in disuso, ma le uniche esistenti per le loro bravate, in attesa che passi il giorno e venga quello del ritorno al futuro come nel film di Zemeckis.

Una specie di assedio alla cittadella del potere di una folla che perdutamente, spesso vestita degli stracci di una etica acquistata da qualche rigattiere ( vicenda del finanziamento pubblico ), corre dietro il grande sogno della spartizione delle spoglie, ma dentro la cittadella poco o nulla è rimasto.

Gli “eredi” vogliono il potere senza avere un loro programma e una loro motivazione, scimmiottando il vecchio assetto dirigente e prendendo a prestito atteggiamenti che finiscono nel grottesco.

Finanche in Parlamento si ripropone lo scenario.

Vi è insediata una corporazione, quella degli eletti, di tutti gli eletti, che per  essere tale, si distingue dalle formazioni dei cittadini peraltro sempre più indeboliti fino ad essere indifesi, male organizzati, mal orientati, poco ispirati da obiettivi attendibili.

La legge elettorale nuova non la faranno ! Un esponente simpatico del centro destra ha detto una verità, tanto verità da essere una battuta.

“Non faremo la nuova legge perché il porcellum è la nostra assicurazione sulla vita.

Se la cambiamo potrà succedere che qualcuno vorrà andare a votare; e invece questo non vogliamo” !

Ed è così !


Franco Petramala