Il tentativo di un Compromesso storico e la Presidenza della Cassa
di Risparmio
Non c’era
utopia, non c’erano predizioni, c’era anche incertezza a proposito
del dove saremmo andati a parare; ma c’era la speranza che quella
fosse la via migliore.
C’era la
voglia di confidare nella storia del Paese – segnata dalla virtù
risorgimentale che accomunava - ma ancor di più si provava la
consapevolezza del nostro “impegno nella storia”.
Naturalmente scetticismo in alcuni ed
entusiasmo in altri.
Albeggiava
tuttavia la “miseria della politica” – quella degli opportunismi
esasperati, del “non credere”
e
del non avere un progetto
ambizioso - dopo anni di passioni forti: si voleva rifiutare la
politica della miseria immaginando, senza fughe profetiche, la forza
della comunità la forza del popolo calabrese appena uscito dai
drammatici e dolorosi fatti di Reggio, che avevano messo a nudo la
fragilità della condizione sociale della Regione e la non lucida
comprensione degli eventi da parte di chi di grandi responsabilità
ne aveva.
Una idea
era comune a tutti, agli scettici ed agli speranzosi: le buone
intenzioni non erano più sufficienti; la storia e la tradizione dei
rapporti politici e dei loro equilibri era un avvio; ma era
necessario avvalersi dello spirito autocritico, indispensabile per
correggere in tempo gli errori e le usure, prima che diventassero
tanto gravida nonconsentirne il riparo.
La tesi
politica di Moro, quella della terza via - cui corrispondeva la tesi
Berlingueriana della unità delle forze popolari per assicurare lo
sviluppo del paese al riparo dagli avventurismi minacciosi della
destra evocati dalla vicenda cilena - perseguiva e presupponeva allo
stesso tempo l’unità del paese, ma anche la sua verifica e quella
delle sue prospettive, a trentanni dalla rinascita della democrazia
e dalla fondazione dello Stato Repubblicano.
Veniva
usato un termine, fin troppo esposto a critiche inevitabili:
“compromesso”; a testimoniare un metodo di lavoro politico ed un
passaggio obbligato per quella verifica: il modo di proseguire dello
Stato unitario, delle sue funzioni parlamentari e di governo
centrale e regionale.
Tuttavia, aben osservare, i processi politici italiani a quel metodo si
erano ispirati.
Fu il
“compromesso”la chiave
di successo della politica di Cavour, fra la tendenza al puro
espansionismo piemontese e la volontà di integrazione delle
popolazioni meridionali e non solo, ai processi unitari.
Giolitti
utilizzò il “compromesso” fra
la Borghesia del Nord - in pieno processo di
accumulazione di capitale in ragione della sua industrializzazione -
e i militari, utilizzando il becero sistema degli ascari
meridionali, realizzando così il compromesso fra le classi
dominanti:fu allora che
sorse sul piano politico la questione meridionale, ben dopo lo
“scandalo” della visita di Zanardelli.
Il vero
scontro politico non si verificò fra i contadini meridionali e la
borghesia del nord; fu invece conflitto epocale fra
la Borghesia del Nord e la nascente Borghesia del
Sud che poteva costituire un punto di riferimento nel quadro dei
nuovi scenari dello sviluppo urbano e delle attività manifatturiere.
Risultò la sconfitta della Borghesia del Sud e la destinazione del
Mezzogiorno all’assistenzialismo.
Fu il
“compromesso nazionalistico” che consentì a Mussolini l’unità del
Paese attraverso il messaggio della unica identità nazionale ai
diversi ceti sociali, agli abbienti, agli industriali, agli
artigiani ai contadini, agli attori dei mestieri che fino ad allora
avevano contato nulla, ai cittadini delle città e della campagne, a
quelli dei borghi.
Fu il
“compromesso parlamentare” a consentire l’equilibrio del sistema
politico del dopoguerra con la coesistenza delle politiche
degasperiane e laiche con quelle togliattiana e della sinistra,
nell’intento di tenere unito e coeso il Paese con l’adozione delle
linee politiche occidentalistiche europeiste e liberali; al disegno
la sinistra non riuscì di opporsi, senza mostrare tuttavia la
sconfitta avendo sagacemente mantenuto il contatto con molta parte
della società italiana, attraverso appunto un ulteriore corollario
compromissorio che, memore delle tesi di Gramsci componeva uno
schieramento che andava dagli operai ai contadini agli intellettuali
fino alla imprenditoria disponibile .
Aldo Moro
era pienamente consapevole che l’Unita politica del Paese
ed
il suo compimento dovesse
passare attraverso il “compromesso politico” che finalmente avrebbe
compiuto il lungo travagliato cammino del popolo Italiano verso
l’unità del Paese e delle sue articolazioni di autonomia e di
decentramento, più volte minacciata, più volte interrotta.
I punti di
maggiore coerenza erano infatti la ristrutturazione della
organizzazione del consenso e della ulteriore laicizzazione della
politica, in anticipo su quel che sarebbe avvenuto dieci anni dopo
la scomparsa di Moro, con la caduta del Muro di Berlino.
La
necessità di tale ulteriore compromesso era sicuramente dettato
anche dal malessere diffuso, dalla tendenziale estesa noncuranza
dello Stato e delle forze politiche indecise sul futuro, dalla
creazione di interstizi in cui andava lavorando con decisione il
terrorismo nostrano che tendeva a fornire di sé una immagine
referenziata ed ingigantita.
Obiettivi
del Congresso della D C calabrese del 1976 dunque furono:
1) la
ricostruzione dell’unità politica dei calabresi dopo gli strappi dei
cinque anni precedenti
2) la
proposta di politiche della solidarietà
3) la
elaborazione autonomistica di programmi di sviluppo con la
utilizzazione di strumenti innovativi
4) la
sperimentazione di forme di governo a sostegno delle suddette azioni
Non fu
facile.Non c’erano
solamente le divisioni interne a tutti i partiti, le logiche
antagonistiche e tattiche. C’era la non condivisione di quella
prospettiva da parte socialista, la pregiudiziale anticomunista e
antisinistra presente anche nei più disponibili al dialogo, a volte
un eccessivo pragmatismo da parte del PCI, la inesistenza di
rapporti con la destra che non era compresa nel Patto
Costituzionale, speciosa invenzione, immaginata dalla Democrazia
Cristiana al Congresso del 1972, ma utile tatticamente ad
organizzare un preambolo politico finalizzato ad
accelerare e rinsaldare il
dialogo tra il Centro politico e la sinistra, nel Paese ed in
Parlamento, insieme all’unità sindacale su cui insisteva soprattutto la CGIL.
La Giunta Perugini
cade perché era utile costruire un esecutivo funzionale alla linea
politica uscita vincente dal Congresso della DC del 1976.
Ero stato
eletto Segretario regionale del partito ed avevo più di un dubbio
sulla necessità di provocare quelle dimissioni immediatamente, ma
prevalse negli organismi del Partito la tesi delle dimissioni
subito.
Si sviluppa il dibattito fra le forze
politiche e dopo faticose trattative prevalgono le ragioni delle
nuove alleanze sulle esigenze delle gestioni, giacchè all’epoca
c’era distinzione fra la gestione della linea politica e la gestione
dei governi, elemento rimarchevole che rendeva il partito politico
protagonista – luogo di partecipazione e di rappresentanza estesa –
, prima ancora dei governi che tuttavia allo stesso tempo
esercitavano un potere altrettanto referenziato.
La saldatura fra i due poteri, politico e
gestionale oggi propone al dibattito politico seri problemi che
investono le modalità della azione democratica; così nel 1955 la DC si era trovata nel dilemma
della sovrapposizione dei due poteri, politico e gestionale, e fu
risolto con la caduta di Fanfani, Segretario forte della DC e
Presidente del Consiglio dopo la morte di De Gasperi.
La DC
continuò così la sua missione politica quasi per altri quaranta
anni.
Oggi
l’evoluzione ha tendenzialmente saldato il potere politicoe quello gestionale, ma c’era stata una anticipazione alla
situazione di oggi con la segreteria De Mita e la Presidenza del Consiglio.
Nel 1976
viene eletto Presidente della Giunta regionale Aldo Ferrara,
politico abile e moderato – “doroteo” di salda cultura politica come
Fedele Palermo - che aveva saputo interpretare la linea del
Congresso di cui Carmelo Puia era il più coerente ispiratore.
Agazio
Loiero
La
vischiosità delle logiche tattiche di partito, soprattutto di quelli
democristiano e comunista, impedisce dunque la formazione di una
Giunta organica dei cinque partiti della coalizione:
la DC, il PCI, il PSI, il PSDI, il PRI..
Da una
nostra idea nasce tuttavia un luogo istituzionale di presenza di
tutti i partiti partecipanti al Patto:
la Commissione
per il Piano, istituita con legge regionale ed elaborata in modo da
attribuire al Partito non presente in Giunta, cioè al PCI, la Presidenza della
medesima, assegnandole poteri coadiuvanti nelle decisioni di alta
amministrazione.
L’esperimento fu il primo cui seguì quello delle Marche.
Tommaso
Rossi, un uomo di ammirevole rigore morale e politico, viene eletto
Presidente.
I
socialisti accedono al patto politico e pur con difficoltà,
conducono con intelligenza la trattativa avvalendosi della abilità
di Cesare Marini e di Ermanna
Carci, che pur interpretando le riserve dei loro esponenti ,
apportano il loro contributo.
E Pino Vita
repubblicano e Gaspare Conforti Socialdemocratico valorizzano la
loro presenza politica.
Incombeva
infatti il pragmatismo e lo scetticismo di Mancini che “non si
fidava” del progetto ma non voleva perdere la battuta dei processi
in atto. Egli dovette accettare molte novità anche sul piano del
ridimensionamento delle aree di potere.
Sapevamo
perfettamente che andava elaborata una strategia complessa e che
sarebbe stato impossibile avviarlasenza la ricerca attenta di ciò che il quadro “moroteo”
indicava ma non definiva.
Al
Coordinamento di tale compito si dedicavano, fra gli altri, Alberto
di Maio, Vito Napoli, Franco Fiorita, Medoro
La Penna, Franco Cimino, Gerardo Pagano - con i
quali condividevo l’ansia di fare sul serio. E meno vicini per
ragioni di schieramento, altri come Aloise, Camo, Santo, Migliori,
Rende, Scarpino.
Ricordo con
piacere la intelligenza politica di Lillo Manti ed i suoi consigli,
la lealtà di Gino Trematerra, mentre un ruolo tutto suo, di
curiosità ironia e sensibilità per la parola ed i suoi suoni fra lo
stravagante e l’originale, inaugurava Agazio Loiero; l’ansia
condivisa da molti dirigenti che apportavano il loro contributo
entusiasta, specialmente fra i più giovani, mostrava però più la
loro tensione e passione politica che la loro reale capacità di
prevalere nei confronti dei capicorrente fra i quali tuttavia si
distinguevano Dario Antoniozzi ed Ernesto Pucci che si rendevano
conto delle esigenze del rinnovamento.
Singolare
fenomeno giacchè l’uno e l’altro appartenevano all’area così detta
moderata della Democrazia Cristiana e che gli avversari si
incaponivano a definire conservatori.
La
centralità della Democrazia Cristiana faceva sì che le impostazioni
strategiche e lo sviluppo delle azioni influenzassero la complessa
vicenda.
La
minoranza che faceva capo a Riccardo Misasi seguì la evoluzione
delle trattative e della elaborazione dei nuovi temi di programma.
La capacità
della Democrazia Cristiana di sostenere le tesi politiche del nuovo
quadro, di accelerarne i processi e di acquisire linguaggio e
contenuti funzionali alla prospettiva politica dell’accordo fra le
forze popolari, si inceppò allorché si dovette affrontare il nodo
della riconsiderazione dello strumento finanziario idoneo a
sostenere il nuovo sviluppo e quindi il ruolo della Cassa di
Risparmio di Calabria e di Lucania.
Carmelo
Puia, determinato ispiratore delle azioni più incisive del governo
regionale, ritiene a quel punto che l’Istituto di Credito, pur
rinnovato, dovesse essere gestito immaginando più conveniente ed
efficace che lo strumento finanziario dovesse saldarsi direttamente
con il potere politico.
Nella
Democrazia Cristiana, in apparenza, questa tesi appariva
del tutto maggioritaria,
sicchè si esprimevano a favore di una Presidenza Puia
della nuova Cassa di
Risparmio molti esponenti della maggioranza, Misasi e Angelo Donato
fra gli altri, mentre più riflessivo era l’atteggiamento di Tassone
e Perugini; essi infatti pur avendo perduto il Congresso
condividevano le preoccupazioni di Guglielmo Nucci che con grande
senso di maturità politica invitava a non esasperare i toni, avendo
percepito la delicatezza del momento e probabilmente, a volte,
l’accortezza dell’azione della Segreteria politica regionale e della
maggioranza.
I Comunisti
non intervenivano ed il loro atteggiamento più equivoco che
equidistante, nella sostanza tendeva a favorire la soluzione Puia.
I
socialisti erano i più prudenti richiamandosi alla vecchia regola
che una scelta altrui, giacchè alla Democrazia Cristiana spettava
decidere, non era di grande interesse, non avendo percepito, a mio
parere,l’importanza che
l’aspetto della gestione finanziaria poteva e doveva avere
sull’intera fase politica dello sviluppo interpretata in chiave
autonomistica ed a forte valenza popolare. Il commissariamento della
Cassa di Risparmio del 1985, preludio della sua dissoluzione, li
vedrà tuttavia espliciti protagonisti.
Similari
atteggiamenti tenevano gli altri partiti.
L’altra
tesi, sostenuta dalla Segreteria Regionale della Democrazia
Cristiana, era la cosiddetta terzietà della gestione della Cassa di
Risparmio perché essa avrebbe rafforzata la fiducia nelle nuove
prospettive politiche, avrebbe modificato le dinamiche lottizzatorie
ed avrebbe reso più snello un modello che doveva per forza di cose
vedere il potere politico prevalente; il potere del governo regionale si sarebbe così avvalso di
un braccio secolare e quindi comunque terzo, in grado di
corrispondere alle linee stabilite dal governo regionale e ad esse
subordinando le sue azioni.
Nel momento
delle scelte le due tesi si confrontarono ma si doveva fare i conti
con i tatticismi che evocavano il raccontare di Sciascia; e per la
verità l’atteggiamento più autentico e lineare era tenuto proprio da
Carmelo Puia, convinto come era della sua tesi; non così i suoi
sostenitori pur distinguendosi fra essi, per capacità di
riflessione, Angelo Donatoe Donato Veraldi.
Gli eventi
successivi diedero ragione alla tesi sostenuta dalla Segreteria
Regionale e torto a coloro che non volevano sentir ragioni.
Nel periodo
delle decisioni e delle tensioni nel Partito si saldò l’alleanza
Puia-Misasi, ma Beniamino Andreatta Ministro del Tesoro, sostenuto
da Beppe Pisanu, favorevole già nel 1979 alla soluzione che ci
sarebbe stata, nel 1981 nominò Presidente un tecnico, appunto
“terzo” e fra l’altro nella rosa di nomi che avevo proposto.
La tesi
della Segreteria Regionale proseguiva, tuttavia, nel porre il tema
della gestione della Istituzione Regionale nel quadro dell’accordo
fra le forze popolari; veniva proposta così la necessità che
direttamente l’uomo guida della coalizione dovesse essere anche il
più autorevole, quel Carmelo
Puia, fra l’altro da sempre orientato nelle sue scelte alla
ricomposizione sociale della Regione dopo i fatti di Reggio Calabria
e interprete delle politiche della solidarietà che, negli anni
successivi ai fatti di cui raccontiamo, sarà la politica della
Democrazia Cristiana, pur con alterna fortuna.
Il fatto
che Puia non fosse stato sostenuto ad assumere la massima
responsabilità politica della Regione da parte di coloro che pure lo
sostenevano alla Presidenza della Cassa di Risparmio, rimane per me
motivo di rammarico e certamente non di mistero, avendo avuto la
chiara sensazione che essi non preferissero Puia leader politico
della Regione.
Tant’è.
Quella non
scelta fu determinante per una Calabria che avesse voluto assumere
un ruolo autonomistico e di grande energica azione positiva di
riconciliazione sociale e di svolta.
Il fatto
che non si riuscì a chiudere la seconda crisi della Giunta Regionale
per l’intervenuto sequestro Moro, non avendo il tempo politico
necessario per svolgere appieno il tema dell’assetto definitivo
della Giunta delle Larghe Intese, è un altro rammarico.
Solamente
l’intervento di Galloni - all’epoca Vicesegretario Nazionale della
Democrazia Cristiana – dopo un lungo e concitato colloquio
telefonico - e la indecisione dei Comunisti che pure mostravano
sapienza tattica e strategica con il loro Segretario Franco
Ambrogio, perdurando il
sequesto di Moro - mi indusse a non insistere sul prolungamento
delle trattative per la nuova Giunta che duravano già da tanto
tempo.
L’equilibrio interno si era definitivamente rotto e dopo la
uccisione di Moro la elaborazione politica si bloccherà; la politica
aveva subito un dirottamento verso il ritorno alle politiche della
coalizione di centro sinistra con la rinuncia della Democrazia
Cristiana, successivamente, alla Presidenza del Consiglio in favore
del laico Spadolini.
Le Brigate
Rosse avevano ottenuto almeno questo risultato.