1.Il ritorno alla
sussidiarietà
Negli ultimi due o tre decenni diverse problematiche hanno riproposto
prepotentemente il tema della sussidiarietà: il processo di costruzione
dell’Europa come entità politica e non più solo come mercato comune; il
disfacimento del comunismo nei paesi dell’est europeo; la crisi dello stato
sociale, nella sua versione di stato provvidenza, nei paesi occidentali; la
progettazione istituzionale più o meno federalista anche in paesi come il
nostro; la necessità di ripensare la fenomenologia dei rapporti tra lo
Stato, gli organismi territoriali e i privati, basato su un nuovo modo di
intendere i rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione nella
prospettiva di un rapporto di parità delle parti o comunque di un maggiore
coinvolgimento dei cittadini; il fenomeno della info-globalizzazione e della
crescente complessità della società e delle sue problematiche economiche ed
ambientali. Ebbene uno dei tratti comuni a queste tematiche è la
riproposizione, appunto, al centro del dibattito e della progettazione
giuridico-politica del problema dell’autorità, del suo esercizio, dei suoi
limiti che è il vero punto focale del principio della sussidiarietà: «l’idea
di sussidiarietà concerne – infatti – il ruolo dell’autorità in generale, e
non solamente l’autorità dello Stato, e richiede che nella società nessuna
autorità travalichi la sua sfera di competenze […] il difficile è proprio
delimitare questa sfera di competenze, che si individua a partire dalle
competenze dell’autorità inferiore – inferiore non quanto al valore, ma
quanto all’estensione del potere.
Una qualunque
autorità deve insomma esercitarsi per sopperire all’insufficienza di
un’autorità più piccola. Se questa insufficienza si manifesta, essa ha per
contro non solamente il diritto, ma il dovere di intervenire»
(Millol-Delsol).
Parlando del principio di sussidiarietà il rischio che si corre è di
contribuire ad una sorta di utilizzazione retorica dell’espressione
“principio di sussidiarietà” spesso usata solo come orpello per rendere più
presentabile la comunicazione politica senza che, da parte di coloro che
così agevolmente la maneggiano, ci sia un serio approfondimento sulle
profonde valenze teoretiche ed etiche del principio. Altre volte, ed è un
altro rischio molto attuale che si corre, è quello della utilizzazione in
chiave ideologica della nozione di sussidiarietà sicuramente per la sua
complessità o per la sua intrinseca ambiguità. In altre impostazioni si
registra un certo sospetto verso un principio elaborato in un preciso
contesto culturale e sociale e caratterizzato, sul piano teoretico, da
altrettanto precise coordinate.
Del resto, sembra che la storia stessa del principio della sussidiarietà sia
la constatazione della distanza sempre presente tra la enunciazione del
principio, abbastanza chiaro pur nella paradossalità della sua formulazione
teorica, e i tentativi di applicazione che spesso hanno condotto, e ancora
conducono, a risultati completamente divergenti.
Emblematica da questo punto di vista, anche per le enormi conseguenze in
termini di diffidenza generata, è la vicenda dello snaturamento del
principio avvenuto con la tentata costruzione del corporativismo fascista.
Ma si potrebbe ricordare l’esempio dell’ordinamento giuridico europeo che
proclama solennemente in ogni occasione il principio, ma poi produce
continuamente, rinnegandolo nei fatti, una normazione invadente e
asfissiante. O ancora si potrebbe pensare a quella che è stata definita la
“mancata attuazione” in una prospettiva sussidiaria dell’art. 2 della nostra
Costituzione.
2.Sussidiarietà vs.
corporativismo
Il tema del corporativismo, in particolare, offre l’occasione per procedere
ad una serie di precisazioni essenziali per delimitare correttamente il
contesto teorico nel quale la sussidiarietà si colloca e per sgombrare il
campo da alcuni fraintendimenti che certamente non hanno giovato alla
riflessione sul principio, direi, dalla Costituente in poi.
Il corporativismo, con tutte le sue implicazioni teoretiche, politiche e
giuridiche, ha rappresentato senza dubbio un terreno di notevole
elaborazione culturale, al di là naturalmente della sua concreta
realizzazione nel ventennio fascista. Non è facile dare conto di un tema
tanto complesso, oltre che estremamente controverso, in poche righe. Mi
sembra molto corretta la ricostruzione di chi ritiene che, in realtà, «si
trattò dell’avvio di un itinerario lungo e faticoso, che si svolse per tutta
la durata del ventennio e che non ebbe mai né un compimento né concreta
effettività nel tessuto socio politico» soprattutto perché «l’anima
arrogantemente autoritaria del fascismo mal sopportava il significato
pluralistico, più o meno coperto, che il corporativismo comportava, e fu
proprio per questo che non si pose concretamente mano alla prevista e
ipotizzata “seconda fase” di una strutturazione corporativa, e cioè alla
realizzazione di una programmazione dell’economia nazionale affidata alle
stesse forze sociali, all’autogoverno dei produttori» (P. Grossi). In questa
sede mi preme solo ricordare quelle tesi che troppo sbrigativamente mettono
insieme, partendo dalla comune matrice filosofica della rivisitazione del
pensiero aristotelico-tomista, corporativismo (ma sarebbe meglio dire
‘corporativismi’ del ‘900), ideologia controrivoluzionaria cattolica e
Dottrina sociale della Chiesa come espressioni di un comune tentativo di
superare lo stato liberale ponendosi più radicalmente contro la modernità.
Strumento essenziale di questa reazione è, appunto, il recupero
dell’organicismo con la conseguente articolazione sussidiaria della società
e dei suoi rapporti con lo Stato. Sono state evidenziate, in questo senso,
alcune assonanze, se non vere e proprie identità di formulazione, tra la
Carta del lavoro (del 1927) e la lettera enciclica
Quadragesimo anno (del 1931)[1]
quasi a voler rivendicare una sorta di matrice fascista al principio della
sussidiarietà, dimenticando però la enciclica
Rerum Novarum[2],
con tutta la riflessione successiva, ignorando completamente, prima ancora,
la figura straordinaria di Antonio Rosmini, nelle cui opere si trovano
interessanti spunti nella prospettiva della sussidiarietà, non considerando
o sottovalutando le riflessioni di Luigi Sturzo[3],
non tenendo conto, insomma, di tutto uno sforzo culturale, anche grazie
all’influenza di pensatori stranieri come Maritain, teso a stabilire un
dialogo, un ponte tra mondo cattolico, pur nella sua straordinaria varietà
sul piano della visione sociale e politica, e il mondo moderno. È una
prospettiva questa che si collega chiaramente alla tesi ripresa da ultimo da
Pietro Prini, ma sostenuta soprattutto da Del Noce, secondo la quale, almeno
per quanto riguarda l’Italia, «la
filosofia cattolica, piuttosto che trattenersi nei falsi concetti
dell’antimoderno o del postmoderno, ha rilevato una direzione diversa della
modernità – quella teologica da Cartesio a Rosmini, accanto e contro quella
atea da Cartesio a Nietzsche – aprendo la via alla fondazione di una
metafisica civile, finalmente libera dalla mistificazione degli assoluti
terrestri». In questa «metafisica civile», mi sembra, giganteggi la
figura di Giuseppe Capograssi con le sue fondamentali opere di filosofia
giuridica e politica, che rappresentano senza ombra di dubbio una delle
critiche più vigorose allo Stato onnipotente, e con il suo magistero, non da
tutti ancora conosciuto, di Socrate cattolico.
La giurista Ilenia Massa Pinto, in un documentato volume, ha ricostruito il
dibattito richiamato nelle pagine precedenti ricordando che nelle tesi
accennate fascismo e dottrina sociale in qualche modo avrebbero avuto
l’obiettivo «di presentarsi come “terza via” rispetto ai due cattivi estremi
del liberalismo e del socialismo: in comune avevano la convinzione della
impossibilità di definire il soggetto nel chiuso della sua assoluta
individualità, e della esigenza di individuare legami orizzontali fra
soggetti che permettessero loro di sentirsi solidalmente responsabili di
un’unità di cui si sentivano parte»[4].
Insomma corporativismo fascista e sussidiarietà della dottrina sociale
sarebbero accomunati, sul piano teorico-politico, dal riferimento ad una
visione organicistica e dalla elaborazione di un modello Stato-società
tendente di una “terza via” contro il liberalismo e il socialismo.
Sulla inconsistenza teorica dell’equazione organicismo corporativo-pensiero
della sussidiarietà non è il caso di indugiare più di tanto. Mi limito a
richiamare una felice ricostruzione di Zagrebelsky: la caratteristica
dell’organicismo sociale cattolico, rappresentato
in primis proprio dalla
Rerum Novarum, è dato dall’idea,
ottimistica, che «i corpi sociali “naturali” siano destinati ad una pacifica
coesistenza rivolta al rispetto e alla cooperazione, oppure che la società,
nelle sue varie componenti sia in grado di sviluppare le energie materiali e
spirituali per superare le proprie difficoltà […] da ciò la conseguenza che
allo Stato deve attribuirsi un compito solo “sussidiario” nei confronti del
libero esplicarsi delle forze sociali organiche […] la vita sociale deve
trovare alimento e forza non dall’intervento dello Stato ma dallo sviluppo
della solidarietà delle parti». Nell’organicismo tipico del corporativismo
fascista, invece, lo Stato assorbe la società civile trasformandosi «in una
grande impresa in cui ogni suo elemento sociale è chiamato a svolgere una
funzione data, sotto la guida di un comando unitario. L’unità massima cui
questo tipo di organicismo può aspirare si ha quando l’intera società viene
indivisibilmente unificata sotto un unico principio di vita organica e
identificata con un solo organismo vivente. Con questo, si distruggono i
‘gruppi intermedi’ e lo Stato appare come un unico organismo in cui ciascun
individuo, come funzionario del tutto, è posto senza intermediazioni sotto
il potere totalmente assorbente dello Stato».
Il corporativismo, in definitiva, lo ha notato puntualmente la
Millon-Delsol, è vittima del paradosso delle conseguenze per cui «il
principio è snaturato, nel senso che il criterio dell’ingerenza –
l’incapacità o il bisogno – si trova arbitrariamente spostato a livello
troppo basso o troppo precoce, a seconda che si faccia riferimento
all’ingerenza nello spazio sociale o nello svolgimento dell’attività. Si
dice che lo Stato interverrà solo in caso di incapacità o di bisogno, ma
questa situazione viene dichiarata esistente subito, poiché l’interesse
individuale – e dunque la libertà individuale – è considerato nefasto perché
separato dall’interesse collettivo […] Questa svalutazione morale
dell’azione individuale rende il principio di sussidiarietà inoperante
perché l’intervento statale diventa necessario dovunque, o quasi». 3.Il significato filosofico
della sussidiarietà
Il notevole lavoro di ricostruzione di storia del pensiero sul principio di
sussidiatietà realizzato dalla Millon-Delsol, nonostante le difficoltà che
una simile impostazione comporta nel momento in cui si procede alla
individuazione di profondissime e ramificate radici con lontanissimi
precursori, oltre ad indicare una prospettiva essenziale per il giurista per
dare un significato alla formula, offre tante utili indicazioni, permettendo
di chiarire alcune controverse questioni e di far svanire quell’alone di
sospetto. Sospetto alimentato, come accennato, sia dal contesto sociale e
culturale nel quale il principio si colloca che è quello della dottrina
sociale della Chiesa, sia dalla prospettiva teoretica che lo caratterizza: e
cioè il principio di
sussidiarietà come norma etica di diritto naturale che rispecchia l’ordine
gerarchico ontologico delle comunità umane, cioè l’ordine nel quale si
dispongono i corpi sociali, caratterizzato dal fatto che «il grado
estimativo della natura di ogni essere è stabilito in relazione al fine ad
esso proprio e alla capacità di raggiungerlo, sicché l’apprezzamento
ontologico e la graduazione assiologica sono perfettamente simmetrici» (G.
Scaccia). Questa premessa teoretica di caratterizzazione genetica del
principio avrebbe comportato, in generale, la sua declinazione antinomica
rispetto alla modernità e più in particolare, sul piano sociale e politico,
la sua contrapposizione allo Stato liberale che aveva distrutto l’antico e
ricco pluralismo sociale attraverso l’attuazione concreta dei principi della
Rivoluzione francese. In questa prospettiva, che mi sembra estremamente
riduttiva rispetto alla portata teoretica ed etica del principio, la
sussidiarietà non sarebbe altro che l’espressione di teorie politiche e
giuridiche reazionarie che auspicano il ritorno ad una concezione
pre-moderna dello Stato e del diritto.
A questa tesi di può contrapporre quella che vede invece nel principio in
questione un tentativo di gettare un ponte tra cattolici e modernità. Questo tentativo, mi
sembra, si collochi in una prospettiva diversa da quella del ‘modernismo’
che, secondo l’aspra critica di Del Noce, ha avuto il limite di voler
piegare il pensiero cattolico a quello moderno. Nella prospettiva qui
delineata, utilizzando ancora Del Noce, possiamo dire che si percorre la
strada individuata da Vico che parte non dalla semplice negazione del
moderno ma dalla «enucleazione in esso di un momento positivo che non è però
quello illuministico e rivoluzionario».
La elaborazione del principio di sussidiarietà avviene certamente in un
contesto filosofico-politico che si preoccupa costantemente di individuare
un percorso diverso rispetto ai modelli totalitari e collettivistici allora
dominanti, che fanno leva sul paradigma organicistico-corporativistico,
evitando però, allo stesso tempo, il modello teorico individualista (ma
sarebbe meglio dire soggettivista), pur nella consapevolezza di vivere in
una società individualista.
Se il corporativismo e l’organicismo guardano nostalgicamente ad un modello
di ordine sociale che non c’è più ma che si vuole comunque ripristinare (da
qui il totalitarismo e le dittature, e da qui il tentativo di, rifiutando
organicismo e corporativismo, di ripudiare i modelli totalitari), ci sono
altre correnti di pensiero che si pongono il problema di conciliare la
dottrina sociale alla modernità fondando diversamente il ruolo dello stato
contemporaneo.
Queste correnti sono essenzialmente due: il solidarismo di
Pesch e il personalismo di
Maritain. Il solidarismo apporta una «filosofia della finitudine
nel senso che non bisogna attendersi dalla società temporale nessun
paradiso, né che le strutture sociali producano formule magiche»
(Millol-Delsol). Concetto, come è noto, costantemente ripreso dall’etica
sociale cristiana. Scrive ad esempio Höffner: «La dottrina sociale cristiana
– soprattutto nel suo orientamento politico, etico e pedagogico – non si
prefigge come traguardo né un paradiso in terra, né una glorificazione
trionfalistica del “mondo moderno”, bensì quell’ordine sociale che permette
all’uomo di adempiere la volontà di Dio e di condurre una vita cristiana.
Essa respinge pertanto sia l’utopismo sociale sia un cristianesimo
spiritualistico da ghetto, che non riconosce alla fede cristiana alcuna
capacità ordinatrice nel campo del sociale e abbandona il mondo al suo
destino».
Il personalismo, invece, porta alla accettazione e alla giustificazione
della società individualista secondo, però, la tradizione tomista. Il
principio di totalità, letto in alcuni contesti in prospettiva totalitaria,
in realtà non significa che l’uomo possa essere considerato un mezzo o che
sia completamente sottomesso alla comunità. Significa che
l’uomo può
raggiungere meglio i suoi fini grazie al suo essere inserito in comunità più
vaste. L’uomo, nella visione di San Tommaso, «non è né
indifferenziato, né frammento incompleto, né ingranaggio privo di una
propria finalità: ma un cosmos in
se stesso, caratterizzato dalla sua attitudine all’amore nel senso proprio
[…] d’istinto naturale nell’ordine della grazia e di volontà morale dopo il
peccato. Così il principio di totalità, per quanto possa apparire strano ai
moderni, non esclude che il pensiero tomista sia la prima giustificazione
della persona come un tutto» (Millol-Delsol).
In questa ricostruzione, il tema del bene comune, connesso al concetto
tomista di totalità, ha rappresentato uno dei momenti più delicati del
dibattito perché in esso la metafora organicistica rischiava di offrire lo
spunto ai nostalgici di cui abbiamo accennato e soprattutto perché
facilmente interpretabile in senso totalitario nel momento in cui si spiega
l’attitudine umana al bene comune come appartenenza della parte al tutto.
Sul piano teoretico solidarismo e personalismo evitano, quindi,
l’organicismo totalitaristico perché sono accomunati dal medesimo
fondamento: entrambi pongono la persona umana come perno centrale della
società. Evitano, altresì, il rischio dell’individualismo perché legittimano
la dignità della persona sulla base del suo rapporto con Dio conferendo,
così, all’individuo una dimensione trascendente: «una
società razionalistica come la nostra può sorridere nel vedere che il valore
essenziale della società si basa su un mistero teologico. Ma forse è proprio
per questo che il valore della dignità rimane inalienabile. Avvalersi
di un mistero – perché di questo si tratta – per sostenere l’uguale valore
di tutti gli uomini, permette di sfuggire a tutte le descrizioni della
dignità che finirebbero per rendere certi uomini più degni di altri […] In
mancanza di un criterio veramente oggettivo, il criterio fondato sulla
trascendenza rassicura quanto meno il desiderio profondo di una dignità
inalienabile e assolutamente uguale per tutti» (Millol-Delsol).
È su questa nozione di dignità che si giustifica il necessario rispetto
dovuto all’uomo e la predisposizione dei mezzi, tra i quali si colloca
l’intervento dello Stato, per contribuire allo sviluppo della sua
personalità.
Questa prospettiva è stata adottata sempre più chiaramente dalla Dottrina
sociale. In una lettera destinata ai partecipanti al Convegno dei medici
cattolici del 1956 ad Amsterdam,
Pio XII riassume e fissa con chiarezza la posizione sua e dei suo
predecessori: «Non è assolutamente provato che il punto di partenza e il
fondamento di ogni struttura giuridica e di ogni giustificazione del
diritto, sia la realizzazione voluta dal Creatore della natura umana
perfetta, e che questo bene postuli la subordinazione dell’individuo alla
società da cui dipende immediatamente, e di questa società alla società
superiore, e così di seguito fino alla società perfetta, allo Stato […].
È una deviazione del
pensiero chiaramente espresso dai Papi, considerare l’uomo nella sua
relazione con la società, come se fosse inserito nel pensiero organico
dell’organismo fisico. Il principio civitas propter cives, non
cives propter civitatem è un’eredità antica della tradizione cattolica e
fu ripresa nell’insegnamento dei Papi
Leone XIII,
Pio X,
PioXI non in maniera
occasionale, ma in termini espliciti, forti, precisi. L’individuo (ecco il
punto di partenza ufficiale della Chiesa) non è soltanto anteriore alla
società per la sua origine, ma le è superiore per il suo destino […] La
società non è che un mezzo universale per mettere le persone in rapporto con
le altre persone. Questa relazione della parte al tutto è qui interamente
differente da quella che esiste nell’organismo fisico. Quando l’uomo entra
per nascita nella società è già provveduto dal Creatore di diritti
indipendenti. Egli spiega la sua attività dando e ricevendo, e attraverso la
sua collaborazione con altri uomini crea dei valori e raggiunge risultati,
che da solo non sarebbe capace di ottenere, e dei quali egli, come persona
individuale, non può essere il portatore. Questi nuovi valori manifestano
che la società possiede una preminenza e una dignità propria; ma da ciò non
deriva una trasformazione della relazione indicata fra individuo e società,
perché questi stessi valori, come la società stessa, sono rapportati a loro
volta, di loro natura, all’individuo e alla persona». 4.Sussidiarietà, “terza via” e
“stato minimo”: alcune precisazioni
Il diritto della sussidiarietà, nel senso di diritto-dovere di ingerenza
dello Stato, ha come fondamento, dunque, la dignità della persona e il bene
comune; la sua finalità è quella di valorizzare la persona ponendola al
centro della dimensione sociale e politica come soggetto responsabile e
creativo (autore/attore), sia come singolo sia nelle formazioni sociali in
cui si trova ad operare.
Ecco perché, per esempio, tra ente superiore ed ente inferiore il principio
offre la priorità a quello inferiore.
Questa priorità o anteriorità operativa significa, allora, che la
sussidiarietà si traduce sempre in «un’azione di aiuto, di stimolo,
orientamento, incoraggiamento, integrazione e solo in ipotesi residuali ed
estreme di autentica ed integrale supplenza», che comporta, anche, «la
consapevolezza che il rispetto del naturale (perché ontologicamente
derivato) ordine gerarchico nell’azione sociale possa essere di ostacolo
all’intrapresa delle azioni pubbliche indispensabili all’ordinato
funzionamento delle economie del capitalismo avanzato» (G. Scaccia).
Il fatto che l’autorità sia supplente o secondaria non significa
considerarla inutile o dannosa e non significa neppure sminuirla.
Sussidiario significa anche secondario ma non eventuale perché «l’autorità
non è la riserva, nel senso di una truppa di riserva della quale si spera di
non doversi servire. Essa è una supplenza della quale la società ha sempre
bisogno» (Millol-Delsol). Più specificamente: l’autorità è un mezzo, quindi
è necessaria sulla base del bisogno che ne abbia la comunità/istanza
inferiore; l’autorità è suppletiva perché viene incontro alle
esigenze/insufficienze della società; ma, soprattutto, l’autorità è
sussidiaria nel senso che si propone un soccorso positivo che si può
spingere oltre perché «essa garantisce in qualche misura un supplemento
d’anima, se vogliamo intendere così i mezzi della felicità perfetta, della
quale Aristotele dice che è possibile solo nella città». In altri termini,
l’autorità è necessaria perché non garantisce soltanto il benessere di
ciascuno ma si preoccupa di lavorare alla completa realizzazione della
società concepita come comunità.
Questa conclusione permette di chiarire due nodi problematici strettamente
connessi e che sono al centro del dibattito.
Il primo riguarda il tema della c.d. “terza via”. Dalle considerazioni
svolte in precedenza credo sia emerso che, nella prospettiva della dottrina
sociale, la sussidiarietà non possa essere intesa come uno strumento di
raffigurazione di una terza via tra liberalismo e socialismo, una formula
compromissoria o eclettica che si costruisce attingendo dall’uno o
dall’altro. Si tratta di un principio che esprime, invece, una concezione
autonoma sia per quanto riguarda i presupposti teoretici, sia per quanto
riguarda i contenuti e le possibili sfere di applicazione. Si tratta di un
principio che esprime un pensiero fondamentalmente diverso dal liberalismo e
dal socialismo. Di fronte al dibattito tra liberalismo e socialismo, la
proposta della sussidiarietà è, sul piano teorico e sulle applicazioni
pratiche, assolutamente “altra”. La dignità della persona, su cui si basa il
dovere di ingerenza che caratterizza la sussidiarietà, non coincide pur
comprendendoli né con l’uguaglianza né con la libertà che giustificano
l’intervento statale nella visione socialista e liberista. Anzi, le
applicazioni di questi modelli, nel capitalismo e nel marxismo,
rappresentano (lo ha detto Giovanni Paolo II nella
Sollicitudo rei socialis) un
ostacolo all’autentico sviluppo della persona umana.
Nella visione socialista non c’è spazio per una dignità umana su cui fondare
i diritti e lo Stato, ma anche la responsabilità e l’azione del soggetto.
Nell’individualismo filosofico, caratterizzato da contratti utilitaristici,
non c’è spazio per una visione ontologica del bene comune, nel senso di un
bene che attiene alla socialità e alla relazionalità umane[5].
Il nesso inscindibile tra una concezione sussidiaria della società e delle
istituzioni di governo e la complessa questione del bene comune, “implica
che il punto focale e fontale dei processi sociali e politici non sia,
primariamente, l’anomico scontro di interessi e di diritti precostituiti
nella rispettiva e reciproca impermeabilità, ma un asse di relazione e di
riconoscimento che ne fa un luogo di autentico, seppur difficile, incontro
tra gli esseri umani» (P. Savarese). Si tratta, in definitiva, come ha
scritto bene la Millon-Delsol, di «un modello adatto all’uomo com’è,
utilizzabile come norma nella misura in cui la descrizione dell’uomo
individuale e sociale permette di esprimere una nozione di diritto naturale
e fedele alla realtà moderna. La scomparsa della società olista obbliga a
respingere la comunità organica a meno di non intenderla nella coercizione.
Ma la certezza che l’uomo è un essere socievole obbliga pure a cancellare
l’idea che esso agisca e si associ solo per interesse».
L’altro punto riguarda un tema che in qualche modo ha contribuito a creare
quel clima di diffidenza che aleggia su molti discorsi sulla sussidiarietà
che per alcuni sarebbe, partendo dall’aspetto economico, lo strumento
principale per realizzare la prevalenza del privato sul pubblico o del
mercato sullo Stato. Infatti,
lo slogan “meno
Stato più mercato” ha accompagnato in modo più o meno strumentale molte
discussioni in materia[6].
Anche su questo punto credo che dalle considerazioni di natura teorica
svolte in precedenza sia emerso che questa tesi non possa certo intendersi
come corollario necessario, automatico, della sussidiarietà. Dalla
formulazione del principio non si può ricavare l’oggettiva conseguenza della
prevalenza del privato sul pubblico, o dei corpi intermedi legati al
territorio sugli altri. La coesistenza direi genetica del dovere di non
ingerenza e dell’obbligo di intervento comporta che nella sussidiarietà si
pone solo, a livello di principio, una opzione di fondo per le formazioni
sociali che non significa certo svuotare lo Stato facendone uno Stato
debole.
Questo perché, sul piano politico, «le condizioni che giustificano una
deroga a questo effetto traslativo “verso il basso” sono oggetto di una
valutazione politica rimessa proprio all’ente autorizzato a porre in essere
gli atti derogatori, al quale si offre così un formidabile e non sempre
adeguatamente controllabile strumento per verticalizzare le competenze» (G.
Scaccia). Con la conseguenza che «la norma di competenza sussidiaria» possa
essere utilizzata come «strumento unilaterale di accentramento», come è
avvenuto nel caso dell’integrazione comunitaria o come avviene laddove
l’impostazione autenticamente autonomista segna il passo o si presenta
estremamente contraddittoria.
Ma lo Stato non può
essere debole perché il perseguimento della giustizia sociale e della
solidarietà richiede uno Stato in grado di intervenire nella economia per
ricondurla alla sua finalità sociale prevedendo anche la proprietà
pubblica di quei beni che «portano seco una preponderanza economica per cui
non si possono lasciare in mano di privati cittadini senza pericolo del bene
comune» (Pio XI).
Viene subito in mente, a tal proposito, l’espressione di Aldo Moro dello
Stato come forma organizzativa suprema della solidarietà umana. C’è un
piccolo scritto (Valore dello Stato),
coevo al dibattito in Assemblea costituente e alle più note posizioni
morotee, che sintetizza in modo impeccabile il nostro tema: «l’impegno
che ed il vigore con i quali i cattolici operano in sede sociale e politica,
l’interesse che dimostrano ed il contributo che danno al rafforzamento delle
strutture dello Stato manifestano che quell’azione non è episodica, non è
frutto di improvvisazione o di deviazione dalle linee essenziali della
concezione cristiana, ma risponde ad una intuizione profonda e ad una ardita
visione delle vie da battere per una instaurazione cristiana nel mondo».
Questa intuizione è il valore dello Stato come vincolo di solidarietà che
stabilisce, come condizioni favorevoli che determina allo sviluppo di tutti
i valori umani. In base a questa intuizione, scrive Moro, «se è giusto
nell’azione politica volere costruire uno Stato che promuova una solidarietà
veramente umana, che salvi ad un tempo la persona e la società, non è giusto
invece, per una malintesa pregiudiziale cristiana spiritualistica e
personalistica, volere uno Stato debole, inconsistente, incolore. Il vincolo
sociale in cui lo Stato si risolve e costituisce la sua ragion d’essere è, o
può essere, cosa talmente grande, talmente importante, talmente decisiva per
l’uomo, che i tipici mezzi della giustizia forte, quelli storicamente più
efficaci, debbono essere adoperati con ogni impegno, perché sorga con
l’immancabile aiuto di uno Stato forte e serio una società sana e operosa».
Questa concezione dello Stato deve essere coniugata, per Moro, con quella
che riconosce i limiti dello Stato e il suo essere inserito in un «complesso
travaglio sociale» perché è grazie alla complessità dell’esperienza umana
nella vita sociale che si stempera ogni pretesa monopolistica: «la
considerazione della famiglia, il favore per le autonomie sociali che sono
presidio di libertà, la rivendicazione costante e vigorosa dei diritti di
tutte le libere associazioni umane sono i segni di questa complessa visione
[…] La preoccupazione cristiana di salvare la società nelle sue ricche e
varie espressioni dal monopolio statale si salda intimamente con la difesa e
il potenziamento dello Stato.
Vero è che non si
difende la società, senza volere lo Stato e che operando con una larga,
organica, storica visione per lo Stato si opera a servizio dell’uomo e della
società tutta»[7].
Questa tesi trova oggi ulteriori conferme nel momento in cui si concretizza
uno «Stato sociale sussidiario»: dopo la caduta dei sistemi socialisti e la
crisi dello stato sociale nei paesi occidentali, anche a seguito della
integrazione sovranazionale e dell’internazionalizzazione dell’economia, la
ripresa del principio di sussidiarietà «si pone certamente al di là dei
modelli dello Stato-Moloc realizzatisi con il paralizzante assistenzialismo
statale, ma non affida la dinamica sociale e i principi che la governano,
come la valorizzazione del merito e della competizione, ad una
deregolamentazione generalizzata del mercato, ed anzi richiede strumenti di
controllo dell’economia più sofisticati che consentano di trarre tutti i
benefici delle intraprese private senza, tuttavia, dimenticare i compiti di
solidarietà e di promozione della persona umana che presiedono alla stessa
formazione dello Stato moderno e del costituzionalismo” (S. Mangiameli).
In altri termini, lo stato sociale sussidiario comporta un cambiamento di
mentalità del pubblico; occorre soprattutto un atteggiamento diverso da
parte dell’amministrazione pubblica verso il mercato, per l’erogazione dei
servizi pubblici e la fornitura di beni pubblici.
È importante ricordare, concludendo su questo punto, la ricostruzione
radicale di Francesco Gentile, che è stato senza dubbio uno degli studiosi
italiani che ha maggiormente riflettuto su questo tema. Il principio di
sussidiarietà (che Gentile definisce “eversivo” in quanto si muove
all’interno delle istituzioni trasformandole, destabilizzandole) pone al
centro della sua attenzione la persona, i diritti della persona. L’incontro
tra i diritti fondamentali e la sussidiarietà determina «il nuovo paradigma
in grado di superare le dicotomie moderne (stato e società, autorità e
libertà, pubblico e privato)» che hanno portato da parte del privato,
«all’assoluta “ombelicità” […] al pensare soltanto al proprio ombelico»
diventando sempre più “privato” e da parte del pubblico alla
irresponsabilità del potere dovuta ad una progressiva statalizzazione dei
fatti sociali: «la progressiva statalizzazione dei fatti sociali, economici
e tecnici e insieme le teorie materialistiche che concepiscono la storia
come un processo necessario, sono il tentativo di abolire il carattere della
responsabilità personale, sino a scindere il potere dalla persona. E rendere
il suo esercizio simile ad un fenomeno naturale, laddove per fenomeno
naturale si intende un fenomeno di tipo meccanico». Rispetto a questo esito
la sussidiarietà rappresenta «una vera e propria boccata di ossigeno, perché
introduce tutti i meccanismi per i quali, da un lato, il privato non può
pensare solo al suo ombelico […] E, dall’altra parte, si mette in atto una
presa di coscienza della responsabilità personale (anche da parte di chi
esercita il potere), che non può essere disattesa e che travolge e recupera
una forma di relazione tra cittadini liberi […] cittadini attivi. Ma per
essere attivi bisogna essere liberi. Perché altrimenti non si è attivi: il
cittadino meccanico, non è un cittadino attivo» (F. Gentile).
Corollario del “nuovo paradigma” e crocevia essenziale del nuovo
cittadino-attivo dovrebbe essere, in definitiva, una sussidiarietà che non
si limiti ad un trasferimento di funzioni amministrative ai privati ma che
si caratterizza più radicalmente come deregolazione in favore dell’autonomia
dei privati. È in questa prospettiva che si colloca la centralità della
figura del contratto sempre più chiamato, soprattutto a seguito della
globalizzazione, a prendere il posto che nel diritto moderno è stato
occupato dalla legge, che perde progressivamente la sua capacità regolatrice
sulla società.
Questo tema investe, naturalmente, più in generale il problema del
quid ius perchè, «si può sostenere
la funzione suppletiva ed ausiliaria del diritto legale, cioè del diritto
sancito mediante la legge, espressione della volontà sovrana dello Stato,
solo se si riconosce preventivamente che l’ordinamento giuridico delle
relazioni interpersonali comincia prima ed indipendentemente della
legislazione statale. Ma per sostenere che l’ordinamento giuridico delle
relazioni interpersonali precede la legislazione pubblica è necessario
riconoscere preventivamente come esso proceda dalla disposizione naturale
dell’uomo, di ciascun uomo, all’autonomia» (F. Gentile).
La discussione sul principio di sussidiarietà potrebbe, quindi,
rappresentare un’utile occasione per affrontare uno dei punti cruciali della
riflessione giuridica e politica dei nostri tempi: impostare sul piano
teorico, anche e soprattutto a seguito delle straordinarie trasformazioni
seguite alla info-globalizzazione, una riconsiderazione, un profondo
ripensamento del diritto e della politica partendo dalla constatazione della
crisi di quel modello giuridico-politico caratterizzato dalla eccessiva
positivizzazione del giuridico, dal quel processo di monopolizzazione della
produzione giuridica (magistralmente descritto da Bobbio), che ha portato
alla esasperazione della dimensione formale del diritto e alla sua
inevitabile subordinazione alla politica e al potere.
Il principio di sussidiarietà, nella sua forma più corretta, ossia come
principio che parte dalla centralità della persona e della sua autonomia, ci
richiama, sul piano del diritto, a recuperare una dimensione della
giuridicità che fa leva sulla essenzialità della esperienza giuridica.
Per questa via si supera «il preconcetto, veicolato dalla geometria legale,
circa l’inettitudine dell’individuo a disciplinarsi, che conduce ad
identificare l’ordine nelle relazioni intersoggettive con la volontà del
sovrano, quale unico modo per creare una regolarità, quella artificiale
imposta dalla legge, laddove vi sarebbe soltanto anomia» (L. Franzese).
In questa prospettiva, nella prospettiva della sussidiarietà, il diritto non
è solo strumento del potere, non è solo forma in cui la politica riversa dei
contenuti normativi; il diritto è prima di tutto qualcosa che è legato alla
esistenza dell’uomo, alla sua dimensione relazionale ed intersoggettiva: «il
diritto prende forma nell’esperienza umana coinvolgendo, più o meno
direttamente, i suoi attori e destinatari nel loro riferirsi gli uni agli
altri. Il diritto, in altri termini, prende forma, ben al di là del dato
normativo immediato, come fenomeno socionomico, in un modo quindi che
non può essere separato dall’ortonomia del movimento di costituzione
della soggettività» (P. Savarese). Il diritto, in altri termini, prima di
estrinsecarsi in norme ed istituti è essenzialmente “vita” secondo la
lezione che da Antonio Rosmini
porta, nel novecento italiano, a
Giuseppe Capograssi e Sergio Cotta.
*
Questo articolo riprende in forma sintetica alcune riflessioni
contenute nel saggio Il
principio di sussidiarietà. Alcune puntualizzazioni teoriche che
ho pubblicato nel volume Casa Borgo Stato. Intorno alla sussidiarietà (a cura di M. Sirimarco
e M.C. Ivaldi), Nuova Cultura, Roma, 2011, al quale rinvio per
approfondimenti e indicazioni bibliografiche. [1]
Che, come è noto, si colloca in un momento molto delicato dei
rapporti tra Fascismo e Chiesa cattolica quando il regime mostra il
suo vero volto procedendo, tra l’altro, ad una forte limitazione
dell’associazionismo cattolico. Così la Chiesa, finita la stagione
della intesa (culminata con la stipula dei Patti lateranensi), con
cui forse si pensava di realizzare quel “totalitarismo cattolico”
vagheggiato nella enciclica del 1925
Quas primas di Pio XI, e
della concorrenza sul piano sociale e teorico, passa ad un
atteggiamento fortemente critico che riguarda certamente il tema
dell’associazionismo, a seguito della decisione di Mussolini di far
chiudere i circoli della gioventù cattolica e delle federazioni
universitarie cattoliche, ma che concerne radicalmente la
consapevolezza della incompatibilità tra Chiesa e fascismo stante la
natura politica del regime come Stato etico, della sua pretesa
totalitaria oggettiva. Questo aspetto emerge ancor più chiaramente
nella successiva enciclica di Pio XI,
Non abbiamo bisogno, del
29 giugno 1931, con la quale la Chiesa reagisce al proposito «di
monopolizzare interamente la gioventù, dalla primissima fanciullezza
fino all’età adulta, a tutto esclusivo vantaggio di un partito, di
un regime, sulla base di un’ideologia che dichiaratamente si risolve
in una vera e propria statolatria pagana non meno in pieno contrasto
coi diritti naturali della famiglia che coi diritti soprannaturali
della Chiesa». Per molti studiosi, solo da questo momento può
iniziarsi a parlare di un antifascismo cattolico. Diversa la tesi
sostenuta da Del Noce per il quale «è inesatto parlare, prima almeno
del consolidamento dell’alleanza col nazismo, di un antifascismo
cattolico che non si riducesse per gli anziani a una nostalgia del
popolarismo e per i ristretti gruppi di giovani ad un distacco dalla
politica»
[2]
Nella Rerum Novarum del 15
maggio 1891 Leone XIII porta a compimento un, per la verità, molto
controverso, percorso di rinnovamento le cui tappe iniziali sono le
encicliche Diuturnum illud (1881),
ImmortaleDei (1885) e
Libertas (1888). Nella
RerumNovarum per la prima volta
si afferma la necessità di riforme sociali, anche se manca
un’articolata visione dei rapporti tra individui, formazioni sociali
e Stato, come avverrà invece con la
Quadragesimo anno nel 1931
che presenta, invece, gli elementi di una filosofia politica
contenente le linee essenziali di una vera e propria dottrina dello
Stato e della libertà in cui la sussidiarietà si pone certamente
come architrave.
[3]
Anche don Luigi Sturzo elabora una proposta sociale e politica che,
pur non menzionando il termine sussidiarietà, si inquadra
chiaramente, come sostengono i più autorevoli studiosi sturziani,
nella prospettiva della sussidiarietà. Uno dei motivi
dell’affermarsi dei totalitarismi è per Sturzo proprio l’aver
svuotato di autonomia le forme organiche economiche, l’averle fatte
diventare degli organi burocratici facendo venir meno, così, la
distinzione tra stato e società con una sorta di statalizzazione e
politicizzazione della società (ma allo stesso esito conduce la
socializzazione delle istituzioni): la sua idea di democrazia
sociale parte proprio dalla irriducibilità di stato e società che
comporta un aggiornamento dell’ordinamento giuridico nella
prospettiva di una maggiore partecipazione democratica e di un
maggior decentramento politico e amministrativo. Sul pensiero di
Sturzo, G. De Rosa,
Luigi Sturzo, Torino,
1977. Sul nostro tema, interessanti spunti in N.
Antonetti,
Dottrine politiche e dottrine
giuridiche. I cattolici democratici e i problemi costituzionali
(1943-1946), in I
cattolici democratici e la Costituzione, a cura di N. Antonetti,
U. De Siervo, F. Malgeri, Bologna, 1998, p. 118 e ss., che riconosce
l’importanza del popolarismo sturziano nel dibattito, ricostruito
puntualmente, che impegna il mondo cattolico sui temi costituzionali
prima dell’inizio dei lavori dell’Assemblea costituente contro una
storiografia tesa a dimostrarne la sua inadeguatezza rispetto alle
esigenze dello costruzione del nuovo stato democratico.
[4]
Sull’organicismo cattolico e in generale sulla contrapposizione tra
modello totalitarista e individualista, da una parte, e
organicistico e meccanicistico dall’altra, v. G.
Zagrebelsky,
Società – Stato – Costituzione,
Torino, 1988. Sulla posizione del tradizionalismo cattolico (e sulla
impossibilità di vedervi automaticamente un collegamento col
fascismo), rinvio all’ormai classico lavoro di T.
Serra,
L’utopia controrivoluzionaria.
Aspetti del cattolicesimo “antirivoluzionario”, Napoli, 1977,
diffusamente. Per l’Autrice, «altro è il recupero strumentalistico e
politico della concezione etica dello Stato, altro quel recupero del
fondamento morale della vita associata e dell’istanza sociale della
morale, quale si presenta nei controrivoluzionari cattolici» (p. 6).
In questa ricostruzione, la polemica dei cattolici tradizionalisti
«si situa forse in una fase intermedia e se, per certe
interpretazioni che se ne sono fatte, i cattolici appaiono
responsabili di una difesa dell’autoritarismo sia in religione che
in politica, per altri versi essi, non che essere i fautori
dell’assolutismo monarchico e religioso, auspicano una soluzione
che, pur non intaccando l’assolutezza (che del resto assume un
carattere funzionale) del principio, non dimentica mai di
distinguere tra l’assolutezza del principio e la umanità di chi
questo principio incarna e se sul piano religioso difendono un
sistema monistico, sul piano politico si pongono a difendere il
sistema sociale pluralistico che è a tutto vantaggio dell’uomo e
della sua libertà» (p. 234). [5]
Cfr.
Benedetto XVI, Caritas in veritate, Città del
Vaticano, 2009. In questa ultima lettera enciclica, viene ripresa la
tradizionale definizione di sussidiarietà con in più il riferimento
importante (sulla scia della
Pacem in terris di Giovanni XXIII, oltre che della
Populorum progressio di
Paolo VI) che proietta la sussidiarietà sul piano delle relazioni
internazionali, al governo della globalizzazione: «Manifestazione
particolare della carità e criterio guida per la collaborazione
fraterna di credenti e non credenti è senz’altro il principio di
sussidiarietà, espressione dell’inalienabile libertà umana. La
sussidiarietà è prima di tutto un aiuto alla persona, attraverso
l’autonomia dei corpi intermedi. Tale aiuto viene offerto quando la
persona e i soggetto sociali non riescono a fare da sé e implica
sempre finalità emancipatrici, perché favorisce la libertà e la
partecipazione in quanto assunzione di responsabilità. La
sussidiarietà rispetta la dignità della persona, nella quale vede un
soggetto sempre capace di dare qualcosa agli altri. Riconoscendo
nella reciprocità l’intima costituzione dell’essere umano, la
sussidiarietà è l’antidoto più efficace contro ogni forma di
assistenzialismo paternalista. Essa può dar conto sia della
molteplice articolazione dei piani e quindi della pluralità dei
soggetti, sia di un loro coordinamento. Si tratta quindi di un
principio particolarmente adatto a governare la globalizzazione e a
orientarla verso un vero sviluppo umano. Per non dar vita a un
pericoloso potere universale di tipo monocratico, il governo
dellaglobalizzazione deve essere di tipo sussidiario,
articolato su più livelli e su piani diversi, che collaborino
reciprocamente. La globalizzazione ha certo bisogno di autorità, in
quanto pone il problema di un bene comune globale da perseguire;
tale autorità, però, dovrà essere organizzata in modo sussidiario e
poliarchico, sia per non ledere la libertà sia per risultare
concretamente efficace». Il principio di sussidiarietà è stato
menzionato anche nella prima enciclica di questo Papa,
Deus caritas est (del
2005), dove si afferma: «Non uno Stato che regoli e domini tutto è
ciò che ci occorre, ma invece uno Stato che generosamente riconosca
e sostenga, nella linea del principio di sussidiarietà, le
iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e uniscono
spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto”. [6]
Cfr. G. Cotturri,
Novità e portata progressiva della sussidiarietà orizzontale nella
Costituzione italiana, in «Gli argomenti umani. Sinistra e
innovazione», n. 9/2003, e
Culture e soggetti della sussidiarietà, in
www.labs.it, consultato il
15-1-2011, che ricostruisce il contesto sociale e politico che ha
caratterizzato il percorso delle riforme culminate con la modifica
del titolo V della Costituzione e ricorda il tentativo di componenti
neoliberiste del mondo cattolico di forzare la sussidiarietà
orizzontale traducendola in una sorta di teoria dello stato minimo
estranea alla nostra Costituzione. Per Cotturi, la sussidiarietà
orizzontale introdotta nel 2001 è diversa da quella neoliberista
perché l’art. 118 ultimo comma non riduce i compiti pubblici ma li
estende «perché impegna le istituzioni di ogni livello territoriale
a favorire – cioè a svolgere politiche di accoglienza e sostegno
vero – l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per
lo svolgimento di attività di interesse generale». Naturalmente la
diffidenza resta in quella parte della cultura (di sinistra)
incapace di pensare che l’interesse generale possa essere perseguito
anche al di fuori dello Stato. Ma la novità, le cui implicazioni
forse non erano del tutto chiare, è proprio questa: «l’accostamento
tra istituzioni e cittadini rispetto alla possibilità di realizzare
in concreto l’interesse generale […] Il cambiamento è così radicale,
nella sfera concettuale, da mandare in soffitta i fondamenti
tradizionali degli stessi saperi giuridici». Dello stesso autore v.
anche, più ampiamente, Potere
sussidiario. Sussidiarietà e federalismo in Europa e in Italia,
Roma, 2001. [7]
L’euforia della stagione costituente prende il posto delle note
pessimistiche che nella riflessione di Moro caratterizzano in
definitiva le pagine che tratteggiano il ruolo dello Stato nel suo
difficile compito di tutela della persona umana. Il tema è
sviluppato soprattutto nelle lezioni di filosofia del diritto. Nelle
lettere dalla prigione BR, nell’ultima tragica stagione della sua
vita, questo tema ritorna naturalmente con tonalità diverse ma con
la stessa drammatica intensità.