Una “Interpretazione del Problema del
Mezzogiorno”
da Foro Amministrativo Ottobre
1971
Presentazione
diFranco Petramala
Quante volte abbiamo sentito parlare del tema e
delle problematiche del Mezzogiorno, gridato enfatizzato
apostrofato, ripetuto, usato come espediente dialettico e strumento
di “lamentatio”, argomento serio di sofferenza reale e di
aspettative sincere e tante, tante volte retoriche !!
Quelle opere di ricerca giovanile,
intuitive e dilettantesche, nel mio caso sollecitate dalla
frequentazione di ambienti di partito politico, in altri casi
presenti in lavori collettivi e personali
di associazioni religiose e
laiche epperò pochi nelle scuole, mi hanno occupato nella
aspettativa di tenere risposte e di darne, per quanto la credibilità
della esperienza lo avesse consentito.
Tranne alcune sporadiche e
coraggiose parole d’ordine tipo….basta con l’esser piagnoni.,ecc….
mai mi era stata offerta una occasione di seria
riflessione conducente ad una conclusione unitaria alla
ragionevolezza di una tesi ben solida e senza pregiudizi ideologici,
coincidente con uno sforzo di
approfondimento colto e graduale e convincente, ma non privo di
passione che argomenti del genere richiamano.
Bene,l’occasione fu proprio, diremmo, occasionale: la lettura nel
1972 di un articolo di
Federico Spantigati, noto giurista, apparso sul numero di ottobre
1971 della Rivista Foro Amministrativo.
La immediatezza ed il rigore insieme della
elaborazione teorica fu tale da monopolizzare la mia attenzione
quasi emozionale come solamente
un’ opera dell’ingegno riesce a dare.
Mi prese e mi affascinò il modo
come era scritto, intanto immediato, di getto quasi volontariamente
avulso da ogni contesto di prudenza, aspetto che mi colpì
grandemente.
Atteggiamento raro per un ceto
intellettuale spesso, per non dire altro, suddito sempre di qualcuno
o qualcosa. Devo però aggiungere che grandi personalità
sull’argomento hanno imposto la chiarezza e le convinzioni meno
condizionate, meno “fortuite” fra quante se ne possano registrare.
E’ inutile offrire esempi molto noti.
Tant’è.
Lessi l’articolo
di getto la prima volta e mi
colpì la sua originalità, qualità che ha molta affinità con la
genialità.
Mi disvelò non già una convinzione,
che d’altronde non avevo!! Piuttosto il riconoscimento di un leale
adattamento intellettuale al reale che da meridionale vivevo da
sempre e che continuo anche oggi a vivere e rivivere.
Mi resta un cruccio: non avere
saputo o potuto testimoniare della qualità e della bontà delle tesi
di Federtico Spantigati in forme più eloquenti e condivise.
Poiché l’attualità è ancora attualità e lo sarà
ancora, mi auguro che quanto è oggetto della riflessione di una
“Interpretazione del problema del Mezzogiorno” riesca ad essere
l’occasione per ripensare e ripensare a quanto tempo è scivolato via
e quanto tempo necessiti …….
Nel frattempo la tesi del conflitto
tra la Borghesia del Nord e della timida e nascente Borghesia del
Sud all’indomani della Unità d’Italia, quale trama dello svolgimento
dei fatti degli uomini e della loro storia, è assolutamente
affascinante, e senza disinvoltura chiave di interpretazione e
premessa ad una azione politica ritrovata.
Franco Petramala
IL PROBLEMA DEL
MEZZOGIORNO: UNA INTERPRETAZIONE di Federico Spantigati
Premessa.
Per prevenire un'altra postilla di S. R.
è opportuno che l'autore faccia subito questa dichiarazione:
l'articolo che qui si pubblica è, per usare il termine di Sergio
Ristuccia in Istituzioni e conflitto sociale
(in questa Rivista 1971, ìli,
614), una «
proposta». Secondo Ristuccia il precedente articolo sul
fascicolo «si riconduce a uno schematismo teorico che manca di
dimensione problematica ».
Chissà quali più dure
parole userebbe per questo.
L'articolo sul fascismo era stato offerto a cinque riviste in
successione, questo sul Mezzogiorno è rimasto nel cassetto un anno e mezzo prima che mi decidessi a
chiedere di pubblicarlo. Per entrambi il difetto principale, a
mio giudizio, è che le affermazioni nonsono dimostrate:«
apodittiche »,dice Ristuccia.
Le affermazioni contenute nei due articoli sì basano, in sostanza, su molti anni di lavoro anche se i risultati sono
condensati in poche paginette. Ripercorrere l'itinerario di
studio che ha portato alle singole affermazioni per esplicitarne
le « pezze d'appoggio
» esigerebbe una
ricerca di un anno o due. Dovrei trovare qualcuno che la
facesse, e chi fosse disposto a finanziare la ricerca. Ma fra i
tanti enti che esistono in Italia dove trovare il finanziatore
di una ricerca sulla traccia delle idee esposte in questo
fascicolo?
Pubblico dunque l'articolo così com'è. Tutti quelli
che sono dalla parte della classe dominante avranno facile gioco
a demolirlo. Ma questo vantaggio che offro loro è, a mio
giudizio, più che compensato dal fatto che l'artìcolo offre idee
su cui riflettere a chi non è dalla parte della classe
dominante, e fra i lettori del Foro ce
n'è qualcuno. Dire «
la proposta mi trova,
in linea di massima, consenziente »
(Ristuccia, Istituzioni e conflitto sociale, cit.)
è tutto quello che
chiedo. « Ma
solo in una linea di massima assai generale: perché, nel caso,
il modo in cui è stato proposto è fra i meno convincenti e alla
fine vanifica la proposta medesima »,
aggiunge Ristuccia.
Bisogna lavorare e le forze del singolo non bastano.
1.Periodizzazione
storica.
Per
orientarci nell'indagine sul problema del Mezzogiorno stabiliamo
alcuni punti fermi.
È un tentativo di periodizzazione. L'esattezza di essa dovrà
essere verificata esaminando nei singoli periodi il problema.
A)
Unificazione. Prima
dell'unificazione non si parla del problema del Mezzogiorno. Il
problema è presente dopo
l'unificazione. Occorre vedere come sorge durante
l'unificazione, e come si connette al modo in cui venne fatta
l'unificazione.
L'unificazione non
è una data ma un processo dinamico, che ha avuto un suo
svolgimento.
II punto di
partenza è il fallimento dei moti spontanei del 1848 e l'inizio della
politica di Cavour: 1850-51 (la data del « connubio »). La
conclusione è quando sono
state create le strutture dello Stato unitario (1865), o meglio
quando finisce la direzione politica dello Stato da parte
di coloro che avevano compiuto l'unificazione: 1876 (passaggio
dalla Destra storica alla Sinistra).
B)
Stato liberale. Periodo che va da quando è terminato il processo di unificazione alla «grande crisi» del
1915-22:1876-1915.
C)La
« grande crisi ». Al momento della prima guerra
mondiale lo Stato liberale è ormai in crisi, per forze che esso
stesso ha generato, e si ha un periodo di incertezza, in cui
sono presenti varie possibilità alternative di sviluppo storico,
periodo che infine sfocia nel fascismo:1915-1922..
D)Stato fascista. Secondo la tesi dell'articolo //
fascismo: criteri di
interpretazione giurìdica (in
questa Rivista, 1970, pp. 991-1010) lo Stato fascista copre il periodo
1922-1960.
La data del
1960
è provvisoria, nel senso che sta ad indicare l'inizio di un
cambiamento. Si potrà vedere qual'è la fine del periodo da una
più lontana prospettiva storica.
In questo
periodo è compresa la Resistenza
(1945-1948), episodio di frattura, e anticipazione di trasformazioni sociali possibili
in futuro.
E)Trasformazioni in atto. Si può
considerare inizio di questo periodo, tuttora in corso, il 1960.
La
Resistenza può
essere più utilmente studiata insieme a questo periodo, in
quanto è una anticipazione di possibili risultati delle
trasformazioni in corso.
2.// problema del
Mezzogiorno durante l'unificazione.
La
unificazione
è stata la conquista del potere in Italia da parte della classe
borghese, che per distruggere le vecchie strutture dovette
operare su base nazionale. La formazione dello Stato unitario
coincide con la presa del potere della borghesia in Italia.
La classe
borghese era una minoranza nel Paese, sia numericamente, sia
territorialmente. Non
solo era una minoranza in assoluto rispetto alle altre classi,
ma erano in minoranza gli Stati preunitari ove essa era in grado
di prendere il sopravvento. Perciò, mentre in alcuni Stati
la creazione dello Stato unitario si fondò su un controllo
sociale già esercitato in pratica dalla borghesia, in altri
dipese dall'uso della forza proveniente dall'esterno (tesi del
libro sulla Sicilia
di Mack Smith: l'unificazione è stata per la Sicilia una
conquista, uguale a tante altre precedenti).
L'unificazione si compie in ciascuno Stato in maniera diversa, e
con effetti diversi. È quindi un errore
studiare unitariamente la storia d'Italia dopo l'unificazione,
perchè anche dopo l'unificazione, se la politica centrale era
uniforme, essa reagiva differentemente in presenza di
situazioni locali diverse. Per tutto il periodo del predominio
borghese, o almeno per tutto il periodo dello Stato liberale, la
storia d'Italia va studiata Stato per Stato, regione per
regione.
Rispetto
all'unificazione gli Stati preunitari con le loro situazioni
rappresentavano una gradazione: da quelli in cui la borghesia
esercitava già
il controllo sociale (Piemonte, Lombardia) a quelli in cui la
conquista borghese, è basata su forze interamente esterne
(Sicilia).
Si può
fare in ipotesi una classificazione in tre categorie: 1) Stati
ove era già in pratica al potere la borghesia: Piemonte,
Liguria, Lombardia, Toscana; 2) Stati, o re-
gioni, in
cui la borghesia era in formazione, e l'unificazione dà la spinta decisiva alla sua affermazione:
'Veneto, Emilia, Marche, Umbria, Lazio; la situazione era
diversa nelle varie regioni dello Stato pontificio, che non
possono essere considerate un caso unitario; 3) regioni (le
varie regioni del Regno delle Due Sicilie erano in condizioni
differenti l'una dall'altra) ove la borghesia non era ancora la
classe socialmente dominante, e continua a non esserlo anche
dopo l'unificazione : Abruzzo, Puglia, Campania, Basilicata,
Calabria, Sicilia, Sardegna.
Lo Stato
unitario venne creato perchè coloro che agirono per l'unificazione si resero
conto che la borghesia non era socialmente dominante ovunque, e
passarono dall'idea di una politica di tranquillo esercizio del
potere da parte della loro classe (regioni) a una politica di «
conquista » (Stato unitario).
Quanto al
problema del Mezzogiorno, in questo periodo si prende coscienza
del fatto che in molte regioni conquistate non vi è una borghesia socialmente dominante (fatti
rilevanti : la guerra civile che va sotto il nome di «
brigantaggio » ; gli studi dopo il 1860 su Napoli; il viaggio di
Franchetti e Sonnino in Sicilia; ecc.). Si segue la politica di
creare istituzioni uniformi in tutta Italia (vedere,
criticamente, M. S.
Giannini, Problemi dell'amministrazione delle regioni insufficientemente
sviluppate, Riv. trim. dir. pubbl., 1962, 552 ss.: la
nostra tesi è opposta). I lavori pubblici sono usati come
strumento di penetrazione economica, e per facilitare il
controllo politico dal centro. Si è ancora coscienti delle
differenze regionali, e il Mezzogiorno non è ancora considerato
un problema uniforme. I problemi politici sono visti dalla
borghesia come problemi di dimensione nazionale, mentre la
realtà sociale è diversa regione da regione.
Conclusione:
durante il periodo dell'unificazione non esiste ancora il
problema del Mezzogiorno. Ne sono poste le premesse con la
diversa forza della borghesia nelle varie regioni, e il diverso
processo della sua affermazione.
3.Lo Stato
liberale e il problema del Mezzogiorno.
Nel 1876
finisce il governo della Destra storica e si passa alla
ordinaria amministrazione, in una situazione consolidata, sul
piano nazionale, di dominio della bor-gheria
{Storia d'Italia di Croce). Resta
invariata la situazione di classe, differenziata per regioni:
controllo sociale della borghesa in alcune regioni, processo di
definitiva sua affermazione in altre, debolezza e subordinazione
in altre ancora.
Non si parla
più
di questo periodo delle regioni come istituzioni politiche. Se
al momento dell'unificazione poteva porsi tale problema, ora la
borghesia ha bisogno dello Stato unitario per controllare la
classe operaia in formazione e per una concentrazione del
potere pubblico sulla stessa scala delle nuove dimensioni delle
imprese. Dopo il 1876 per questi motivi si sarebbe avuta
probabilmente una evoluzione verso lo Stato unitario anche se
fossero state create le regioni. Il problema delle regioni non
ha una continuità nella storia d'Italia: si pone in termini
diversi in vari momenti: unificazione; grande crisi; Resistenza;
oggi.
Lo Stato
liberale difende gli interessi della borghesia al Nord con
l'industrializzazione, al Sud danneggiando le regioni ove la
borghesia non è la classe
dominante. È chiaro che la politica di industrializzazione del
Nord è una politica di classe della borghesia, ma anche la
politica del Sud è una politica di classe.
Si suole
contrapporre la politica seguita dallo Stato liberale nel Nord a
quella seguita nel Sud: favorito il Nord a spese del Sud. Si
dice anche che la politica dello Stato liberale
è stata dominata, almeno per un certo periodo, dalla alleanza
degli industriali del Nord con i latifondisti del Sud. In
realtà gli interessi perseguiti dallo Statoliberale sono stati sempre e
ovunque' gli stessi, difesa e rafforzamento della borghesia.
Nelle regioni dove la borghesia era debole questo rendeva
necessaria una politica contraria alle classi più
forti in queste regioni, feudatari e contadini. Ciò fu ottenuto
indebolendo sempre più, nel quadro dello Stato unitario, queste
regioni. L'alleanza, locale e nazionale, della borghesia con i
feudatari era un riconoscimento tattico delle loro posizioni di
potere, ma inserita in una strategia generale che operava a loro
danno. I feudatari d'altra parte avevano comunque bisogno
dell'alleanza per mantenere il controllo sulla classe dei
contadini.
È dunque la bilancia del potere interna alla
società del Sud che determina le decisioni sfavorevoli al Sud
nella politica dello Stato liberale. Quando la bilancia del
potere cambia, la borghesia gradualmente agisce con una politica
di maggiore equilibrio fra Nord e Sud. Ma, come vedremo, sempre
in funzione degli interessi di classe, e quindi non per
modificare i rapporti creatisi fra Nord e Sud, ma per
consolidare il proprio dominio.
È da spiegare in questo modo l'apparente paradosso
che nel 1876 vanno al potere con la Sinistra i toscani e i
meridionali, i Presidenti del Consiglio negli anni successivi
sono spesso meridionali, e come risultato sono favoriti, nello
sviluppo economico dello Stato liberale, Piemonte, Lombardia e
Liguria.
La crisi
degli anni 1898-1901, in cui la borghesia prende coscienza di
avere di fronte degli avversari di classe e cessa di
preoccuparsi dell'« ancien regime » per preoccuparsi di socialisti e
cattolici, non muta la politica dello Stato liberale per il
Mezzogiorno. La borghesia cambia strategia dopo il 1901 verso
la classe operaia al Nord, non la cambia verso i feudatari e i
contadini del Sud, che pure avevano partecipato alle rivolte.
Il problema
del Mezzogiorno non sorge da una politica di sviluppo del Nord a
danno del Sud, ma dalla necessità
di indebolire i feudatari e mantenere il controllo sui contadini
nel Sud. Il declino delle regioni del Mezzogiorno è una
automatica conseguenza della debolezza della borghesia in
queste regioni. Non nel senso che la borghesia del Sud non
riusciva a far rispettare i suoi interessi dai borghesi del
Nord, ma nel senso, opposto, che i borghesi del Nord per
aiutarla danneggiavano il Sud.
Lo sviluppo
del Sud sarebbe stato possibile con una spontanea evoluzione dei
rapporti di classe locali. Ad esempio, secondo la intuizione di
Pisacane, e qualche accenno del genere si ha anche nella
politica degli ultimi Borboni, con la sostituzione al potere
della classe contadina ai feudatari. Invece, conquistate le
regioni del Sud da una classe straniera alle strutture sociali
locali, lo sviluppo del Sud viene arrestato e il corso delle
trasformazioni sociali deviato per creare una classe borghese a
spese dell'impoverimento del Sud.
Conclusione
: il problema del Mezzogiorno nasce durante lo Stato liberale
per la politica della borghesia di danneggiare le classi più
forti nelle regioni ove non era essa la classe dominante.
4.
L'interpretazione borghese del problema del Mezzogiorno durante
lo Stato liberale.
L'esistenza
di una politica dello Stato liberale che favoriva il Nord e
danneggiava il Sud venne denunciata durante lo Stato liberale,
in primo luogo, da borghesi meridionali (G. Fortunato). Nasceva
la « questione meridionale », il « problema del
Mezzogiorno ». Naturalmente questo problema veniva descritto
come problema di sperequazione territoriale, non come problema
di rapporti di classe.
Gli effetti
della sperequazione erano l'emigrazione dei contadini,
l'impoverimento (relativo) dei proprietari latifondisti, la
ricerca del posto negli impieghi statali comeideale di lavoro.
Effetti che indebolivano le classi dei feudatari e dei contadini
e rafforzavano la borghegia.
Iborghesi meridionali non pensavano che la sperequazione
operasse in loro favore. Erano lontani dal ragionare in termini
di classe, e ritenevano di parlare nell'interesse
generale delle regioni meridionali. Secondo una tecnica
automatica nel modo di pensare della borghesia, essi parlavano in nome di un
« interesse generale » che coincideva con l'interesse proprio.
L'interesse
che i sostenitori della questione meridionale difendevano era un
interesse interno alla classe borghese: la ripartizione delle
risorse controllate dallo Stato
liberale doveva avvenire più a vantaggio dei borghesi del Sud, secondo la loro tesi. Essi
dimenticavano la realtà sociale del Sud: la struttura di una
società borghese non esisteva, e l'unico modo per crearla era
operare come veniva fatto. Per promuovere lo sviluppo del Sud
sarebbe stato necessario aiutare maggiormente i latifondisti
oppure dare un potere alla classe contadina. Entrambe
prospettive, una reazionaria, l'altra progressista, escluse per
lo Stato borghese.
Necessariamente la polemica sulla questione meridionale era
destinata al fallimento: l'interesse di un gruppo della classe
dominante cozzava contro gli interessi generali della stessa
classe.
IIproblema del Mezzogiorno, nel modo come venne impostato,
giovava comunque a tutta la borghesia: nascondeva l'evoluzione
nei rapporti fra le classi nel Mezzogiorno, poneva in termine
territoriali un problema di classe.Conclusione
: il problema del Mezzogiorno venne sollevato da rappresentanti
della classe borghese e
corrispondeva a problemi interni alla loro classe.
5.// problema del
Mezzogiorno durante la grande crisi.
La
borghesia risorgimentale che governava lo Stato liberale aveva
seguito una strategia
differenziata nei confronti degli avversari di classe che lo
sviluppo economico e sociale sempre maggiore dell'Italia le
contrapponeva. Nei confronti della piccola borghesia, sempre più
numerosa, aveva seguito la strategia del distacco, della
contrapposizione, e del predominio culturale. Nei confronti
della classe operaia, dopo la crisi del 1898-1901, aveva seguito
la strategia del migliorare il tenore di vita e mantenerla
lontana dal potere. Nei confronti della classe contadina aveva
seguito la strategia del comprimere le condizioni di vita,
riducendone i problemi a questioni di sopravvivenza
o emigrazione, in modo che
non venisse a partecipare dei problemi del potere. Nei confronti
dei feudatari aveva mantenuto l'alleanza tattica conclusa dopo
l'unificazione, ma sempre più diminuendone come classe il potere
politico ed economico.
Questa
strategia differenziata ebbe successo, e la borghesia
risorgimentale esercitò
incontrastata l'egemonia in Italia fino al 1915. L'influenza di
fattori esterni, con lo scoppio della prima guerra mondiale,
determinò l'esplosione della crisi: erano maturati diversi
rapporti di forza fra le classi nella società, e la borghesia
risorgimentale non aveva ancora adattato la propria strategia
alla nuova situazione. La crisi scoppiò come conflitto fra la
grande e la piccola borghesia, e coinvolse dopo la fine della
guerra tutte le classi.
Nella grande
crisi 1915-1922 si torna a parlare di regioni, cioè di una organizzazione
del potere pubblico basata su centri di potere locale in
alternativa allo Stato unitario. È una idea avanzata dal partito
popolare, guidato da un siciliano e che ha largo seguito fra i
contadini, e dal partito repubblicano, il più tenace nemico
della monarchia simbolo dello Stato unitario.
Il problema
del Mezzogiorno durante la grande crisi è invece in ecclissi. La
borghesia risorgimentale, che aveva creato il problema, ha
perso il controllo della situazione, e non può più imporre né
una politica di discriminazione contro il Sud, né il falso tema
culturale del « problema del Mezzogiorno ». Le classi si
scontrano nel Mezzogiorno regione per regione secondo i rapporti
di forza locali. I partiti che sorgono in queste regioni sono
partiti di contadini, che combattono i latifondisti chiedendo
in primo luogo la distribuzione delle terre. Le vicende delle
lotte, e fino i nomi dei
partiti, sono diversi regione per regione; le rivendicazioni
sono comunque sempre rivendicazioni di classe, non
rivendicazioni territoriali di regione contro regione o del Sud
contro il Nord. I temi laceranti del periodo sono la situazione
dei contadini, il potere nelle fabbriche, le autonomie locali,
non il problema del Mezzogiorno.
La decisione
della grande crisi dipendeva dalla creazione di un obbiettivo
strategico comune alle classi in lotta contro la borghesia che
ne unificasse le forze ponendo le basi per una diversa
organizzazione del potere. Mancò in quella situazione un Mao-Tze Tung capace di
elaborare un obbiettivo strategico comune che, come egli ha
fatto in Cina, inglobasse anche in parte la piccola borghesia.
Il problema venne invece risolto da Mussolini per la grande e la
piccola borghesia con i temi: ordine, Stato, nazione. Invece di
un mutamento nelle classi che esercitavano il potere avemmo così
il fascismo.
L'errore
delle classi che combattevano la borghesia fu di mantenere
obbiettivi separati. Gli
operai per il controllo delle fabbriche, i contadini per la
occupazione delle terre, i politici delle varie regioni per le
autonomie locali. La strategia differenziata della borghesia
risorgimentale coglieva i suoi frutti : gli obbiettivi erano
antagonistici fra loro. Il controllo delle fabbriche
presupponeva il mantenimento della struttura industriale che si
reggeva sulla compressione dei consumi dei contadini,
l'occupazione delle terre significava l'arresto dello sviluppo
delle città
per aumentare i servizi e le infrastrutture delle campagne,
entrambi gli obbiettivi erano perseguiti mirando a controllare
e far agire il potere legislativo ed esecutivo centrale mentre
la lotta per le autonomie locali erano condotta a sé stante.
Gramsci,
probabilmente il cervello più acuto delle classi in lotta contro la borghesia,
teorizzò la unità di azione di operai del Nord e contadini del
Sud con la tesi del « blocco storico ». Vale a dire intuì la
necessità dell'unità di azione fra classi diverse per la lotta
contro la borghesia. Ma non era Mao : lo si potrebbe definire un
borghese che aveva letto Marx ed era rimasto abbagliato
dall'azione pratica di Lenin, non un marxista. L'unità di azione
era da lui concepita nel « blocco storico » come somma di
obbiettivi, i consigli di fabbrica agli operai e l'occupazione
delle terre per i contadini, senza riuscire ad inventare un
obbiettivo strategico comune ad operai e contadini.
Lenin aveva operato in presenza di una classe feudale in
decomposizione e di una debolissima borghesia, il potere
era stato conquistato in Russia dai soli operai, e la terra ai
contadini era stata un mezzo per bloccare la controrivoluzione,
non per rovesciare la classe al potere. Un marxista che prende
esempio da un altro marxista che opera in condizioni di classe
interamente diverse non è un marxista.
Gramsci
inoltre accettava il concetto borghese del
« problema del Mezzogiorno », senza riuscire a negare la
differenziazione del problema politico fra Nord e Sud
considerando la situazione dal punto di vista delle classi. La
differenziazione fra Nord e Sud era una mistificazione della
borghesia e corrispondeva a problemi interni della borghesia
stessa.
Conclusione:
l'andamento della « grande crisi » dimostra che i problemi sociali
del Sud non erano il « problema del Mezzogiorno » ma problemi di
classe nazionali, articolati diversamente regione per regione.
Mentre la borghesia risorgimentale, che avevaattuato la politica di conquista
del Sud, non era più
in grado di mantenere l'egemonia nella società italiana, le
altre classi erano frappo separate fra loro per sostituirvi la
loro egemonia. Come è implicito nel fallimento del « blocco
storico » di Gramsci, le altre classi avrebbero dovuto negare il
problema del Mezzogiorno con' un obbiettivo comune, non
mantenerlo con obbiettivi di classe separati nel Nord e nel Sud.
6.Lo Stato
fascista e il problema del Mezzogiorno.
Il fascismo
risolve a suo modo tutti e tre i problemi principali della
« grande crisi». Per
le regioni il fascismo concentra ulteriormente i poteri nello
Stato e facilita dal punto di vista organizzativo e tecnico le
comunicazioni fra il centro e la periferia : in molti ambienti
diventa ora prassi regolare il « viaggio a Roma » per « sbrigare
le pratiche ». Per i contadini si ha progressivamente la
distribuzione delle terre, ma mantenendo rigorosamente
subordinata l'organizzazione dell'agricoltura a quella
dell'industria. Per gli operai si ha un miglioramento, prima
normativo poi economico, nelle condizioni di vita, ma
mantenendo rigidamente il controllo capitalistico sulla
produzione.
Nonostante
la frattura della Resistenza, lo Stato fascista conserva
sostanzialmente inalterata
la sua struttura di potere fino almeno al 1960. Il più
delle volte, infatti, una politica iniziata da Mussolini e dal
regime fascista trova continuità dopo la Resistenza, viene
sviluppata e portata a piene conseguenze dopo il 1950. Ciò è
dovuto al perdurare nella società italiana dell'egemonia della
stessa classe, la borghesia. La differenza tra lo Stato
liberale e lo Stato fascista è che la borghesia con lo Stato
fascista esercita l'egemonia in una società di massa, e si è
allargata a includere la piccola borghesia, che diventa
dominante all'interno della borghesia stessa.
Quanto alle
regioni, con la vittoria del fascismo il problema è nuovamente cancellato
dalla storia d'Italia. Lo Stato fascista è la negazione di una
organizzazione del potere basata su centri di poteri locali.
Esso rafforza i legami fra Stato e enti locali, facendo
diventare questi ultimi «enti ausiliari dello Stato».
Nello Stato
liberale il potere pubblico era esercitato da una pluralità di amministrazioni
centrali, che facevano confluire i loro ordini nel Prefetto, i
quali li coordinava, controllando a sua volta una
pluralità di Comuni. Il Prefetto, secondo le definizioni della
dottrina giuridica tradizionale, era il rappresentante locale
del governo, con potere
politico, e competenza provinciale. Nello Stato fascista,
invece, le amministrazioni centrali coordinano le decisioni
direttamente fra loro, e inviano ciascuna ordini a propri
rappresentanti a livello provinciale o regionale, che
controllano settori specializzati corrispondenti dei
Comuni, o li eseguono direttamente.
Il Prefetto
dal 1922 al 1945 mantiene, anzi rafforza, la sua importanza in
quanto, se perde competenze specifiche, è direttamente collegato alla persona che concentra
il potere politico, Mussolini. Dopo il 1948, essendo esercitato
il potere con meno personalismi e più meccanismi automatici, il
Prefetto perde di importanza, mentre l'acquistano i comitati di
coordinamento dei ministri e localmente gli organi dei singoli
ministeri. La razionalizzazione del sistema porta a concentrare
il potere dei rappresentanti dei singoli ministeri, localmente,
in organi di competenza maggiore della provincia, e quindi,
prima di fatto, poi anche formalmente, acquistano importanza gli
uffici dei ministeri dei capoluoghi delle regioni.
Anche nello
Stato fascista vi
è una tendenza verso le ragioni come livello intermedio di
organizzazione dello Stato. Ma la regione dello Stato fascista è
l'opposto della regione come centro di potere locale. Essa serve
a rendere più efficiente il governo dal centro, non a
contrapporvisi, sostituendovi decisioni locali.
Apparentemente vi
è una contrapposizione netta fra il regime fascista dal 1922 al
1945 e il regime democristiano dopo il 1948 in tema di
Mezzogiorno. Il regime fascista nega che vi sia un problema del
Mezzogiorno e applica uniformemente le sue politiche su tutto il
territorio nazionale. Il regime democristiano riconosce che vi è
un problema del Mezzogiorno, e istituisce un ente apposito, la
Cassa per il Mezzogiorno, per finanziare interventi straordinari
e risolvere il problema.
Come abbiamo
visto in precedenza, il problema del Mezzogiorno non esiste.
È l'aspetto che assume la
lotta di classe della borghesia nelle regioni ove la borghesia è
più debole delle altre classi. La lotta di classe è nazionale,
da quando la borghesia ha creato lo Stato unitario, e i problemi
locali della lotta di classe variano non tra Nord e Sud ma da
regione a regione, per motivi storici. La contrapposizione
Nord-Sud è creata dalla borghesia e le serve come copertura
ideologica nei confronti delle altre classi.
Sia la
politica uniforme del regime fascista, che continua con maggiore
forza egemone la politica dello Stato liberale, sia la politica
differenziata del regime democristiano, negano la natura di
classe del problema nel Mezzogiorno. In questo sono identiche.
La differenza, cioè la Cassa per il Mezzogiorno, è dovuta al fatto
che la borghesia meridionale, in particolare la piccola
borghesia, si è rafforzata durante il regime fascista in modo da
consentire la creazione di organi di sostegno economico del Sud
che non opereranno a favore delle altre classi.
Si ha la
riprova esaminando i rapporti fra Cassa per il Mezzogiorno e
istituzioni delle singole regioni. In Sicilia, dove la classe
egemone è ancora quella dei
feudatari e la borghesia è debole, l'opera di sviluppo, svolta
da enti siciliani autonomi, è servita a sostegno delle strutture
sociali tradizionali. In Sardegna, ove la lotta fra strutture
feudali e borghesia è in bilico, con il piano di rinascita la
borghesia ha subordinato le strutture autonome alla direzione
centralizzata della Cassa per il Mezzogiorno, volgendo la
politica di sviluppo a proprio vantaggio. Nelle regioni
continentali, ove la borghesia ha oggi il sopravvento, lo
sviluppo è stato affidato alla Cassa per il Mezzogiorno secondo
gli schemi tipici di uno Stato fascista della direzione
centralizzata a Roma, del comitato di coordinamento dei
ministri, dell'azione settoriale verticale priva di
coordinamento locale.
Conclusione:
lo Stato fascista eredita dallo Stato liberale il problema del
Mezzogiorno come problema della borghesia. In un primo periodo
continua una politica uniforme su tutto il territorio
nazionale, che danneggia il Sud, in un secondo periodo viene
creato un organo di sostegno economico, la Cassa per il
Mezzogiorno, a vantaggio della borghesia del Sud. Il punto di
passaggio dal primo al secondo periodo
è il momento in cui, con le vicende degli anni 1945-1948 in
queste regioni, la borghesia si dimostra capace di tenere testa
a feudatari e contadini.
7.
L'interpretazione borghese del problema del Mezzogiorno durante
lo Stato fascista.
Il problema
del Mezzogiorno, impostato dai borghesi meridionali durante lo
Stato liberale,
è considerato uno dei problemi fondamentali dello Stato
fascista.
La
differenza fra il primo periodo e ii secondo periodo dello Stato
fascista non riguarda la impostazione del problema. Mussolini
faceva sostenere che il problema era stato superato dal
fascismo, il regime democristiano crea la Cassa per il
Mezzogiorno per superarlo, ma entrambi partono dal presupposto
che il problema del Mezzogiorno esiste, o
è esistito, e regolano su questa premessa la propria azione
propagandistica. Mussolini, conoscendo la debolezza nel
Mezzogiorno delia borghesia, continua
pari pari la politica dello Stato liberale, ma ordina ai
borghesi meridionali di tacere. Il regime democristiano,
rassicurato sulla forza della borghesia nel Sud, le concede
dopo il 18 aprile 1948 uno specifico strumento di potere.
Se il
problema del Mezzogiorno
è quello di una sperequazione territoriale fra Nord e Sud, la
logica risposta è un intervento economico straordinario che
riequilibri Nòrd e Sud portando, con investimenti e interventi
compensatori, il Sud al livello del Nord entro un certo numero
di anni. La logica risposta al problema del Mezzogiorno
impostato dai borghesi meridionali durante lo Stato liberale è
la Cassa per il Mezzogiorno del regime democristiano.
Prima che la
lunga azione di depressione del Sud avesse avuto effetto, avesse
cioè
mutato i rapporti di forza fra le classi nel Sud, uno specifico
strumento di potere per il Sud sarebbe stato utilizzato dalle
classi antiborghesi contro la borghesia. Era quindi necessario
aspettare che la borghesia fosse capace di controllare lo
strumento. Per questo sono passati decenni dalla impostazione
del problema del Mezzogiorno alla Cassa per il Mezzogiorno.
Vent'anni di
esperienza della Cassa, secondo l'interpretazione correntemente
accolta, dimostrano che la
Cassa è riuscita a bloccare il
dislivello fra Nord e Sud, mantenendolo in rapporto costante, non a colmarlo.
Coerentemente alla impostazione borghese del problema,
bisognerebbe ancora aumentare gli investimenti e i poteri della
Cassa per passare, dalla conservazione del dislivello a rapporto
costante, alla eliminazione di esso. Dopo quindici anni di
esperienza la Cassa è stata rinnovata per un secondo
quindicennio con finanziamenti e poteri aumentati.
Se il
problema del Mezzogiorno non esiste, nel senso che la
sperequazione territoriale
è un effetto automatico delle differenze di forza della classe
egemone nelle diverse regioni, l'eliminazione della
sperequazione territoriale non si può avere che con una
struttura diversa del potere. Il fatto che la Cassa per il
Mezzogiorno mantiene stabile il dislivello non è correggibile
con maggiori finanziamenti, ma dipende dalla struttura del
potere della classe egemone.
Conclusione:
sia la totale negazione del problema del Mezzogiorno durante il
regime fascista, sia il tentativo di soluzione del problema con
la Cassa per il Mezzogiorno durante il regime democristiano
rispondono alla logica del problema impostato
durante lo Stato liberale. Continuando l'egemonia della
borghesia, continuerà
necessariamente lo squilibrio derivante dai rapporti
territoriali di potere fra la borghesia e le altre classi e
all'interno della borghesia stessa.
8.// problema del
Mezzogiorno e le trasformazioni in corso.
Raggiunta
l'egemonia locale nelle regioni del Sud e creato uno strumento
specifico per l'esercizio di questa egemonia con la Cassa per il
Mezzogiorno, la borghesia non ha più
incentivo a mutare la situazione nelle regioni meridionali. Per
quel che la riguarda, la situazione è stabilizzata. Resta
l'eccezione della Sicilia, dove ancora i rapporti sociali sono
modellati sullo stampo dell'aristocrazia feudale: i borghesi
continentali hanno rinunciato in pratica a trasformare la
società siciliana stabilendo l'egemonia dei loro valori anche in
questa regione, la classe dirigente siciliana è riuscita, dal
canto suo, a isolare la Sicilia dal resto d'Italia mantenendo un
sistema di valori e strumenti di potere propri.
L'ineguaglianza di condizioni fra Nord e Sud non è
stata annullata, ma contemporaneamente esistono ineguaglianze interne sia
alle regioni del Nord che alle regioni del Sud. Zone sviluppate
del Sud sono a livello di zone del Nord, e zone depresse del
Centro-Nord sono
in condizioni simili a quelle di zone del Sud. Viene creata la Cassa
per le zone depresse del Centro-Nord, identica alla Cassa per il
Mezzogiorno. La Cassa per il Mezzogiorno diversifica, dal canto suo,
la sua attività
secondo i tipi di zone nel Sud.
Ifenomeni tradizionali che avevano fatto parlare del problema
del Mezzogiorno continuano. I borghesi che tentano la scalata
all'interno della classe dirigente abbandonano il Sud, il flusso
dell'emigrazione contadina continua dal Sud al Nord, gli
investimenti nel Sud sono fatti da imprese che hanno la loro sede
nel Nord. Gli investimenti straordinari nel Mezzogiorno, sommati
agli investimenti ordinari, mantengono stabile il rapporto fra Sud e
Nord, non lo mutano.
La sintesi
è oggi che le diseguaglianze fra Nord e Sud restano, ma il problema
del Mezzogiorno è diminuito di importanza.
IImotivo è che si trattava di un
problema interno a una sola classe, la borghesia,e questo problema è
stato risolto.
Il problema era
interno a una sola classe nel senso che solo la borghesia aveva
interesse a discutere la ripartizione territoriale delle risorse fra
Nord e Sud. I contadini, i feudatari, gli operai subiscono le
conseguenze della ripartizione territoriale delle risorse, stanno
cioè più o meno bene secondo
il grado di sviluppo della regione, ma il loro problema è il
rapporto con la classe dominante nella regione dove si trovano, non
il grado comparativo di sviluppo della loro regione con le altre.
L'arretratezza è motivo per la classe dominante di contrasto con le
classi dominanti nelle altre regioni, per le classi soggette,
individualmente, di emigrazione. I contadini del Sud diventano gli
operai del Nord, i feudatari del Sud diventano i capitalisti del
Nord. Finché restano nel Sud il loro problema è il locale rapporto
di potere, di cui sono parte, non il rapporto di potere fra la loro
regione e le altre, fra Sud e Nord. Quando le classi soggette si
interessano dei rapporti territoriali di potere ciò è a vantaggio
della classe dominante, che non le ha più di fronte nella lotta di
classe locale ed è aiutata contro le classi dominanti delle altre
regioni, senza alcun vantaggio reale per le classi soggette, che
hanno solo quello apparente del momentaneo alleviarsi della
pressione di classe. Ciò è accaduto in tutta Italia durante la
grande crisi, mantenendo obbiettivi separati nella lotta di classe,
con il risultato di giungere al fascismo, e in Sicilia durante la
Resistenza, con il risultato di isolare la Sicilia dal resto
d'Italia. In entrambi i casi le classi soggette si sono ritrovate,
dopo, peggio di prima.
La borghesia non
attua oggi più
una politica di discriminazione contro le regioni meridionali ma una
politica di mantenimento degli equilibri esistenti. Il potere di
classe necessariamente genera una distribuzione territoriale
ineguale del potere, con concentrazione in alcune regioni e
subordinazione di altre, finché si giunge a una distribuzione
territoriale gerarchica conforme al principio autoritario del potere
di classe. Quando ovunque l'egemonia è della stessa classe le
differenze di potere, e quindi di sviluppo, fra le regioni non sono
motivo di rottura del sistema, ma servono a mantenere in equilibrio
dinamico il sistema stesso. Quando i rapporti gerarchici sono ben
definiti e ogni classe e ogni parte del territorio mantiene costante
il suo rapporto con le altre, in una società classica tutto funziona
per il meglio.
Gli squilibri
sono necessariamente presenti, ma per la classe dominante non
esistono problemi.