Mi
è sempre stato difficile spiegare il mio paese.
Quando studente a Napoli mi si chiedeva di dove fossi,
rispondevo: “Di Cosenza”. EppureCosenza
distava130Kme,per
raggiungerla,
bisognava
alzarsialle
quattro del mattino per
prendere la corriera che arrivava in quella città verso le
nove.
Ma tant’è.
Evitavo così fastidiose domande: dove si trova? Quanti
abitanti vi sono? Oppure:
“ah! sei di Reggio”.
Tali erano, infatti, le reazioni quando dicevo di essere di
Castroregio, neppure
segnato con un puntino sulle carte geografichemoderne.
Eppure quel territorio dovette apparire una “Terra promessa”
ai profughi albanesi
che lo popolarono alla fine del 1478. Dalla marina,
preceduti dal Papàse dalle sacre icone,
guadagnarono in fretta la cima della montagna, che
disboscarono per
conquistare terre da coltivare.
Il silenzio monacale che spiravano i boschi e le valli fu
rotto ben presto dai suoni di unavitacheriprendevaprepotentementee
intornoallachiesa,
chedall’alto
incominciò a vegliare
maestosa come un tempio antico sulle vallate sottostanti e
sul panorama
dello Jonio amico, si costruirono non abitazioni in
muratura, ma miseri “pagliari” forse coltivando il
sogno non tanto segreto di un ritorno celere ai patri lidi
liberati dagli infedeli dalla potente spada del genoveseDoria, la cui flotta li
aveva traghettati sulle
coste calabresi.
Il sogno non si avverò e i miseri pagliari furono sostituiti
da case in pietra a secco
che riproponevano l’organizzazione urbanistica della patria
d’origine: la gjithonìa,
il vicinato. Tutto ruotava, infatti, intorno ad un mutuo
soccorso tra i vicini di casa
fra i quali si stabilivano legami solidissimi.
Il paese crebbe come comunità di uomini fieri della loro
identità religiosa e
culturale, che spesso dovettero difendere dall’invadenza dei
vescovi latini contrari
alla lingua, ai riti e ad usanze orientali sui loro
territori. Identità che non impedì ai
giovanidiCastroregiodidareillorocontributodi
sangueduranteimoti
risorgimentali, né fu motivo di isolamento se agli inizi del
‘900 alcuni prodotti
agricoli, come l’olio e il vino, ricevevano riconoscimenti
significativi in esposizioni
internazionali.
I
matrimoni,lenascite
olemorti,
lefeste,eranoirituali
simboliciele
rappresentazioni solenni in cui si riconosceva e si
manifestava il senso di comunità.
Ancora agli inizi degli anni ’60 le povere case di pietra, i
cui comignoli fumavano
nei paesaggi invernali spesso innevati, emanavano un senso
profondo di cose
semplici e un raro sapore di umanità civile.
Oggi il paese si presenta con le case ristrutturate e
ricoperte all’esterno da
intonaci variopinti dagli emigranti che vengono ad aprirle
d’estate. Nelle
strade il vecchio selciato, su cui da piccoli si giocava “la
campana”, è stato
sostituito dal porfido uniforme e nella fiera del 18 agosto,
intorno al Santuario della Madonna della
Neve, non si vedono più gli animali infiocchettati e i
mercanti pugliesi o il sorbettiere della Basilicata con le
bottiglie di sciroppi colorati. Una folla di sconosciuti circola per le bancarelle
masticando gomma americana e
toccandooggetti
anonimi
dell’estremo
Oriente,
vendutidaafricani,indiani
o chissà da chi.
Per tutto il mese di agosto il paese si popola degli emigranti e
dei figli degli
emigranticheostentano
macchinesgargiantiefortiinflessioni
lombarde,
piemontesi o romagnole, uniche prove di uno status desiderato.
A settembre il paese torna vuoto, con le case di nuovo chiuse e
i pochi abitanti, tutti
anziani, con i figli lontani e la compagnia del televisore.
Il vento non ha più volti rugosi da accarezzare per le strade,
né gioca più con il
fumo dei camini e si lamenta urtando contro i muri delle case
chiuse o con qualche
imposta di finestra dimenticata aperta…