«L’uomo cammina
sull’orlo estremo del precipizio»[1],
avverte Heidegger, proprio quando arrivi a percepire persino se
stesso come Bestand,
materiale umano disponibile, nuda vita pienamente integrabile
nel progetto manipolante e assicurativo della tecnica moderna,
che, nella forma globale dell’impianto (Ge-stell), così il
filosofo definisce l’intera struttura provocante della tecnica
moderna, rischia di cancellare definitivamente l’essenza più
autenticamente umana, quella di esser-ci votato all’ascolto di
una verità più originaria. Calcolo e pianificazione sono,
infatti, le modalità “tecniche” con cui ordinare il tutto nella
forma della risorsa da usurare e destinare alla produzione
incondizionata, «ivi compresa la materia prima uomo». Non ci si
dovrà stupire se, avvertiva Heidegger, «sulla base delle attuali
ricerche della chimica, un giorno si possano creare fabbriche
per la produzione artificiale di materiale umano»[2].
Tale dirigismo in materia di fecondazione è, infatti,
strettamente connesso all’esigenza di materiale umano da
impiegare nell’apparato tecnico, alla cui base agisce quel
principio d’efficienza, che annulla ogni differenza costitutiva
del mondo divenuto ormai un «non-mondo», per assicurare la
logica e incondizionata consumazione dell’essente, compreso la
vita. E allora, non c’è più spazio per ciò che è sacro,
intangibile, laddove tutto viene spianato sulla piattaforma come
un prodotto mercificato del lavoro e della produzione. Il
pensare, il poetare, l’arte creativa ridotta a tecnica, nulla
più, ormai, è in grado di portare in luce il senso, ma ogni cosa
diviene prodotto di una produzione infinita, anche la vita non
si sottrae al rischio di una produzione totale. «Talvolta sembra
che l’umanità corra all’impazzata verso questa meta:
che l’uomo produca tecnicamente se stesso. Se ciò riuscirà - tuonava
Heidegger agli inizi degli anni cinquanta quando la “rivoluzione
biologica”[3]
muoveva i primi passi grazie alla scoperta della struttura
molecolare del DNA ad opera di Watson e Crick, che diede inizio
alla genetica sperimentale -l’uomo avrà fatto saltare in aria se stesso, cioè la
sua essenza come
soggettività»[4].
D’altrondela
disponibilità sempre crescente di interventi tecnici
sull’organismo umano del tutto impensabili qualche decennio fa,
ha profondamente rivoluzionato il rapporto con alcune esperienze
simboliche della vita, il generare e la nascita così come il
morire, sempre più “insistentemente” sottratti al loro
originario divenire naturale, per essere assoggettate ad una
dinamica di controllo tecnico tipicamente moderna. Le
straordinarie potenzialità dell’ingegneria genetica e delle
biotecnologie, la “sproporzionata” disponibilità di screening
diagnostici, rispetto alle effettivepossibilità terapeutiche, ci pongono costantemente
davanti agli esiti di un potere di manipolazione dalle derive,
evidentemente, ancora troppo poco prevedibili. La possibilità di
intervenire direttamente sul patrimonio genetico influenzando
l’intero processo generativo dischiude gli scenari di quella
che, senza dubbi, rappresenta la più profonda rivoluzione
antropologica della storia, poiché investe le radici più intime
dell’identità umana e dell’intera sua specie. Si è obbligati,
pertanto, a non escludere l’ipotesi che tali sviluppi
tecnologici, a lungo termine, possano condurre ad una riforma
radicale capace di investire e pianificare addirittura i
caratteri genetici della specie, fino a sovvertire il fatalismo
della nascita in una nascita “opzionale”, in ordine a quella
esasperata ricerca della perfezione nel nascituro mediante il
ricorso a diagnosi selettive di massa in fase prenatale o
reimpianto. Non c’è dubbio che lo sviluppo socio-economico,
abbinato alla crescita potenziale delle biotecnologie abbiano
contribuito, soprattutto nei paesi occidentali, all’affermarsi
di una visione altamente edonistica e salutista del corpo umano,
dove proprio ottimizzazione e perfezionamento rappresentanotermini adeguati a definire l’incidenza sempre più
invasiva della tecnologia. Non a caso uno degli aspetti decisivi
dell’ingegneria genetica, come per la tecnica moderna secondo
l’analisi di Heidegger, consiste proprio nell’eliminare ogni
elemento di imprevedibilità e provvisorietà. In un’ottica così
prevalente ci si chiede se la vita stessa possa essere pensata
non come un presupposto in sé, ma come un prodotto disponibile.
Il pericolo,
allora, è nell’essenza della tecnica che nell’epoca moderna
porta l’uomo sulla via di quel disvelamento provocante mediante
il quale il reale si manifesta come fondo (Bestand),
come mera materia manipolabile.
Mentre la techné
antica era determinata dalla necessità della natura, limite
invalicabile allaprâxis
umana, la provocazione della tecnica moderna trascende la
potenza originaria della natura. Essapretende che «fornisca energia che possa come tale essere
estratta (Herausgefördert)
e accumulata»[5],
per cui, «non è più in ordine all’essere e allo svelarsi della
physis, ma è in ordine all’avere e al poter disporre del
potenziale energetico che vale non in quanto è (Stand)
ma in quanto è a disposizione (Bestand)»[6].La
disponibilità e l’assicurazione delle risorse, ivi compreso, lo
ribadiamo, la risorsa più importante, la vita umana, è infatti
il principio su cui si fonda il pensiero moderno, il modo in cui
la realtà stessa si manifesta. In questo senso la tecnica è la
verità della nostra epoca, il suo destino, nel modo in cui
l’uomo si rapporta nella forma del dominio e del controllo
affinché tutto sia conforme ai suoi progetti.Ciò che è veramente inquietante per Heidegger, non è
rappresentato dalle macchine e dagli apparati tecnici, bensì dal
dominio dell’imposizione assoluta, che trasforma radicalmente il
mondo, e a cui l’uomo non è sufficientemente preparato. Lo
sviluppo della tecnica moderna ha infatti abolito quella
prospettiva antropocentrica nella quale era ancora l’uomo ad
esercitare il suo potere sulla natura. Ciò, di conseguenza
avrebbe vanificato, secondo una tesi cara al filosofo Umberto
Galimberti, quella speranza riposta in una etica della
responsabilità sul modello umanistico proposto da Hans Jonas, in
grado di esercitare un controllosulla tecnica, diventata ormai completamente “autonoma”
rispetto alla volontà umana. A tal proposito, nella notaintervista con lo «Spiegel», Heidegger ammetteva la
difficoltà di individuare un sistema politico adeguato al
dominio planetario della tecnica moderna che non sia anch’esso
dominato dalla concezione strumentale e neutrale della tecnica
come strumento governabile dall’uomo. La tecnica moderna, nella
sua forma planetaria e impositiva è per Heidegger completamente
indomabile da una qualsiasi forma politica, la stessa democrazia
appare inadeguata poiché la razionalità tecnica riduce il
principio di autorità della politica, condizionata oramai dal
controllo e dai programmi guida della tecnica, e ridotta in
quanto tale, a mera propaganda “asservita” ai suoi interessi. In
un orizzonte così determinato «nessun
Führer può più illudersi di guidare le sorti del mondo, senza
obbedire egli stesso per primo agli imperativi del comando che
guidano l’assalto tecnico»[7].
Nessun Führer, ma anche nessun moderno sistema politico-normativosarebbe in grado di sottrarsi all’imperialismo della
tecnica, che pertanto, nella sua dimensione planetaria crea
inevitabilmente «seri dubbi sulla possibilità, nelle società
tecnicizzate, dell’esistenza della democrazia»[8].
Le stesse frontiere aperte oggi dalle biotecnologie non
rappresentano più il regno della biopolitica, nella sua antica
pretesa di controllare e gestire tutti gli aspetti della vita,
sia esistenziale che biologica. Tutto questo apparato, che ha
visto proprio nell’eugenetica nazista la sua massima
espressione, rappresenta oggi soltanto il residuo di un vecchio
potere ormai completamente superato da una nuova forma di
imposizione (Gestell),
un nuovo potere che traduce, questa volta, in termini economici
e di mercato ogni aspetto della vita umana.
È sul tema dell’impensabilità della
tecnica, che Heidegger insiste. «Tutto funziona. Questo è
appunto l’inquietante, che funziona e che il funzionare spinge
sempre oltre verso un ulteriore funzionare e che la tecnica
strappa e sradica l’uomo sempre di più dalla terra»[9].
Operando nella completa assenza di senso, dominato dalla
razionalità tecnica e dal suo inarrestabile processo di
potenziamento e perfezionamento sulla via tracciata
dall’imperativo tecnico si
può quindi si deve, l’uomo agirebbe nella completa
insensatezza imposta dall’apparato e dal suo carattere
afinalistico che impone di produrre tutto ciò che è producibile
per il solo fatto che è producibile.Il pericolo allora, per Heidegger, è che l’uomo, nelruolo di funzionario che egli assume inevitabilmente
nell’apparato, senza scopi ulteriori se non quelli imposti
dall’accrescimento tecnico, sia estraniato dalla possibilità di
percorrere un cammino alternativo che solo un pensiero meditante
può dischiudere. La tecnica «non pensa», spinta dalla
razionalità calcolante completamente priva di ogni ricerca di
senso, agisce in un incessante auto potenziamento che investe
l’uomo sradicandolo dalla terra. Il fatto che continuino gli
esperimenti nucleari quando la scorta di bombe atomiche è già
ampiamente sufficiente alla completa distruzione dell’umanità,
così come gli sviluppi dell’ingegneria genetica, orientati
minacciosamente ad una messa in crisi di quell’immagine che
l’uomo ha di sé nella sua riconoscibilità psicofisica,
evidenziano quanto pericolosamente radicata sia la mentalità
“autoreferenziale” della tecnica tendente al suo illimitato
perfezionamento. Dinanzi al crollo di ogni ideologia politica è
la volontà di potenza,
nella sua veste “tecnototalitaria”, ad assumere il direttamente
il comando, scatenando il proprio dominio totale scevro da ogni
limite etico, politico o ideologico? L’aspetto più inquietante è
che l’uomo sia completamenteimpreparato a questa radicale trasformazione del mondo,
avvertiva Heidegger. «Sgomento e inerme, in balia
dell’inarrestabile strapotere della tecnica»[10],
incapace di dominarla mediante libera volontà, assiste inerme
alla distruzione della terra e della vita. Ciò che è
inquietante, dunque per il filosofo, non è che il mondo si
tecnicizzi, ma che l’uomo non sia sufficientemente preparato a
questa trasformazione radicale, e cioè, detto in altri termini,
egli non disponga di strumenti critici, di una adeguata
meditazione con cui confrontarsi e rapportarsi con gli eventi
che caratterizzano la stessa età tecnologica. È l’impreparazione
dell’uomo di fronte al
Gestell, l’impianto globale con cui il filosofo della
Foresta Nera descriverà la provocazione tecnica, il vero
pericolo, il suo essere completamente disarmato di fronte al suo
potere, incapace a coglierne la reale essenza. Per queste
ragioni non occorre ripudiarla, quanto, invece, confrontarla con
un pensiero alternativo a quello calcolante della logica
tecnico-razionale, e capace di distacco, cioè di tenersi libero
da essa pur facendone uso. La tecnica in sé non rappresenta un
pericolo, essa è indiscutibilmente un simbolo straordinario
dell’intelligenza dell’uomo, così come lo sono le stesse
sperimentazioni in ambito genetico; il rischiovero consiste, invece, nella totale soggezione delle
scelte umane a una questione esclusivamente tecnica, in un
regime di oblio assoluto del senso. Emerge, qui, un ulteriore e
fondamentale limite della concezione antropologico-strumentale
della tecnica: come metafisica compiutanell’impiegabilità del tutto, nella riduzione dell’uomo a
materia prima, è ora la tecnica in quanto
Gestell-impianto ad
arrogarsi il ruolo di “soggetto provocante”, un tempo carattere
indiscusso dell’uomo moderno. «Una potenza più alta
dell’uomo-soggetto riprende con imperio la parola»[11].
Non è forse questo il pericolo più grande?
Le riflessioni heideggeriane esprimono, pertanto, il bisogno di
una profonda riconversione di pensiero nell’uomo, di una
riconfigurazione del suo rapporto con l’essere che riconduca,
nello specifico,la
tecnica stessa, dal suo stato di predominio nella forma
impositiva del Gestell,
ad uno stato di quiete accoglienza alla φύσις, la natura
originaria secondo l’accezione presocratica, dove l’uomo possa
nuovamente porsi in ascolto dell’essere nel suo disvelamento
autentico. L’insegnamento che riceviamo da Heidegger, attraverso
una lettura attenta dei suoi scritti è un invito al superamento
che non annulla la tecnica, ma che ci chiede, soltanto, di
pensare e agire in modo diverso.
La tecnica per quanto necessaria non esaurisce la domanda
fondamentale sul senso. Di questo senso deve farsi carico una
responsabilità morale, la sola in grado di cogliere quel valore
simbolico inscritto alla radice delle esperienze umane più
profonde, come il generare e il nascere. È forse questo il
compito principale oggi per la bioetica: porsi, in ascolto di
ciò che ci è donato, la vita, ancora disposti ad accoglierla
come evento e possibilità di senso, dono offerto e, in quanto
tale, indisponibile.
Alessandro
Urso
[1]
M.Heidegger, La
questione della tecnica, in
Saggi e discorsi,
Mursia, Milano 1976, 20-21 [2]
M.Heidegger,
Oltrepassamento della metafisica, in Saggi e discorsi,
op.cit, p.62 [3]Scrive
Hediegger: «Le ricerche del chimico Kuhn, a cui
quest’anno (1951) la città di Francoforte ha conferito
il premio Goethe, aprono già la possibilità di regolare
in modo pianificato, secondo i bisogni, la generazione
di esseri viventi di sesso maschile o femminile».
M.Heidegger,
Oltrepassamento della metafisica, in Saggi e discorsi,
op. cit. p 62 [4]
M.Heidegger,
Sull’essenza e sul concetto della φύσις, in
Segnavia,
Adelphi p 211. [5]
M.Heidegger, La
questione della tecnica, op.cit p.11 [6]
U.Galimberti, Il
tramonto dell’occidente nella lettura di Heidegger e
Jaspers, Feltrinelli, Milano 2005, p. 398 [7]
C.Resta, Heidegger
e il tecnototalitarismo planetario, in
Heidegger e l’
orizzonte della filosofia pratica, Guerini, Milano
2003, p.170. [8]
U.Galimberti,
Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica,
Feltrinelli, Milano 2002, p. 450 [9]
M.Heidegger, Ormai
soltanto un Dio ci può salvare. Intervista con lo
Spiegel, Marini, A. (a cura di), Guanda, Parma 1987,
p.134 [10]
M. Heidegger,
Gelassenheit, il melangolo, Genova 2006, p. 36 [11]
E.Mazzarella,
Tecnica e metafisica. Saggio su Heidegger, Guida,
Napoli 1981, p. 248